Stefano Pujatti (Elasticofarm): l’architettura coltivata

Elasticofarm è, in estrema sintesi, uno studio di architettura. In questa definizione così ampia eppure così specifica, risiede tutta la complessità e la non convenzionalità del modo di condurre l’attività di architetti focalizzando gli sforzi sul progetto architettonico e sul fare in modo che un’idea si traduca in realtà.

Recentemente insignito del riconoscimento per il miglior edificio al Premio Italiano di Architettura di Maxxi e Triennale di Milano (“ma i premi non sono il nostro obiettivo”, ci tiene a precisare Stefano Pujatti, tra i fondatori dello studio), vanta un portfolio di progetti vasto per tipologia, per dimensione e per collocazione geografica; tutti sono però accomunati da un risultato che rompe il recinto dell’ordinario facendosi manifesto di una precisa idea di architettura.

Abbiamo parlato con Stefano Pujatti per capire se fosse possibile, partendo dai progetti, fare un’operazione di reverse engineering che spiegasse, almeno in parte, il processo che porta a questi risultati.

Come è strutturato lo studio, da quanto operate, quanti siete, dove avete le vostre sedi?

Elasticofarm è strutturato in varie sedi. Come farm esiste dal 2005 e il nome ha una ragione letterale di collocazione fisica in mezzo alle campagne; la sede principale è a Chieri, alle pendici della collina a sud di Torino. Dalla nostra sede si apre la pianura padana, ma siamo a dieci minuti dalla città, in una posizione che riteniamo privilegiata.

I soci fondatori della farm sono tre, oltre a me ci sono Alberto del Maschio e Sara Dal Gallo che si occupa del dipartimento di design industriale. Alberto gestisce la sede di Budoia, in provincia di Pordenone, che si occupa principalmente dello sviluppo dei progetti nelle loro fasi più relative all’ingegnerizzazione e alla realizzazione dei progetti.

Nell’unità dello studio, ci sono quindi anime e collocazioni diverse anche strettamente connesse alle fasi del progetto, ma non si tratta di una divisione in termini assoluti. Ci sono alcuni progetti che sono gestiti individualmente dalle singole sedi e altri sui quali si focalizzano gli sforzi di tutti.

Questo è richiamato nella parola elastico del nostro nome, termine che ben racconta questa capacità di espandersi e contrarsi rimanendo sempre una singolarità. Complessivamente siamo 14, con due persone fisse nella terza sede, a Toronto, che si trova all’interno dello studio KFA e che lavora sullo sviluppo dei progetti in Nord America.

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La tua personale formazione è avvenuta tra Iuav di Venezia, Sci-Arch in California e, successivamente, collaborando con Thom Mayne, Gino Valle e Coop Himmelb(l)au. Come si sono coniugatiambiti così diversi nella tua evoluzione professionale?

Queste fasi della mia formazione sono le più evidenti, ma non per forza le uniche che siano significative. Per cui risulta facile descriverle, menzionarle e provare a trovare un comune denominatore tra mondi che sembrano diversi, dalla tesi fatta con Coop Himmelb(l)au al lavoro con Gino Valle.

Ma il denominatore comune è solo uno ed è che tutte questi episodi sono legati al fare architettura. Il mio percorso è fatto di questi episodi più conosciuti che si sono mescolati ad altri magari meno altisonanti, ma non meno preziosi.

Le influenze al mio lavoro sono anche nella quotidianità, dalla visita a una mostra d’arte, al parlare con le maestranze in cantiere. Per cui non sono in grado di dire esattamente cosa e in che modo ha influenzato lo studio, anche perché lo studio ha 14 entità e ognuna di queste ha le proprie esperienze, i propri percorsi e il contributo di ciascuno ha una sua impronta sulla nostra produzione.

L’aspetto che forse si percepisce maggiormente di questo approccio è nel fatto che la produzione dello studio potrebbe essere definita fuori dall’ordinario. Non ci sono progetti ‘replica’, in stile e non c’è un settore di specializzazione dei temi di progetto. Si tratta di una scelta precisa e mirata?

Il tema per noi preponderante non è un tema di progetto, ma di processo. Quello che ci interessa fare è operare con il nostro intelletto per produrre il miglior risultato possibile per quello specifico progetto.

In realtà questa pratica si potrebbe applicare a tutti gli ambiti della creatività umana, dal comporre musica, al dipingere, così come appunto al fare architettura. Personalmente amerei essere in grado di avere un approccio più fluido alla creatività ed essere in grado di comporre, di scrivere un libro, ma questa cosa non è possibile e alla fine si rimane vincolati a quello che si riesce fare bene.

Per cui in questo contesto, ‘relegati’ a una sola disciplina, trovarsi ulteriormente limitati da uno specifico settore o da uno specifico tema di progetto, non è di nostro interesse. Il programma funzionale non è un tema determinante del fare architettura, è solo uno dei vari aspetti.

Non vedo differenze tra un programma e un altro, se non forse un tema di scala che comporta gradi di complessità diversi. Ma non è un elemento che guida le nostre scelte, non vedo ragioni per preferire un tema ad un altro, se non con lo scopo di lavorare con una specializzazione e una conseguente ottimizzazione della produzione, concetti che però non fanno parte del nostro approccio all’architettura.

Per noi il progetto, indipendentemente dalla sua funzione, deve essere qualcosa che ti cambia, non qualcosa che ti conferma e questo difficilmente può avvenire nel momento in cui si opera per serializzazione.

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In questa ottica come avviene la selezione dei progetti? Lavorando nel solco del non ordinario come vi interfacciate con i clienti che magari non mostrano tutti la stessa predisposizione?

Chi si rivolge oggi al nostro studio difficilmente ci contatta in maniera casuale. Vuoi per un contatto diretto vuoi per conoscenza di altri lavori dello studio, generalmente c’è molta chiarezza sull’architettura che un cliente potrà aspettarsi. Sicuramente è capitato in passato, agli inizi dell’attività, di avere maggiori incomprensioni, ma è una cosa che ci ha aiutato anche a capire come coinvolgere la committenza.

In generale cerchiamo sempre di generare entusiasmo intorno al progetto, che è la chiave per riuscire a portare a termine un edificio come vorremmo. Certamente il processo poi presenta dei compromessi, spesso capita di non ottenere tutto ciò che si aveva in mente all’inizio di un progetto, ma anche in quei casi abbiamo capito che in tutti i progetti ci sono almeno una o più parti di valore, significative per il nostro filone di ricerca ed è precisamente quello per cui lavoriamo.

Il nostro è un processo di sperimentazione costante e la committenza è coinvolta in pieno. La gestione del cliente passa anche da precise definizioni di ambito; ogni progetto ha delle parti che sono ‘proprietà’ del cliente, come il programma funzionale che è una sua esigenza e che va soddisfatta in pieno.

Poi c’è qualcosa di più e noi lavoriamo su quel qualcosa in più che è il territorio dell’architetto ovvero il come soddisfa queste esigenze. A volte il committente non ne è nemmeno totalmente conscio di questo ‘di più’, ci piace pensarlo come un regalo che magari si troverà in futuro e che oggi non realizza di avere.

In un contesto così sperimentale di approccio alla professione, come avviene lo sviluppo dei progetti? Fino a che scala vi spingete, come vi interfacciate con le consulenze specialistiche? Lavorate molto con strumenti informatici, con modelli, con prototipi?

Non esiste di per sé una formula esatta, è più un processo in continua evoluzione. Anche per gli strumenti, non ne abbiamo di perfetti e standardizzati per ogni progetto, ci sono strumenti che in determinate fasi del progetto sono un limite e in altre delle risorse.

Tendenzialmente, come detto, abbiamo una parte dello studio che è maggiormente strutturata per affrontare la fase di ingegnerizzazione e costruzione ed è quella che si relaziona ad esempio con gli strutturisti, con gli impiantisti, ma non è mai un lavoro totalmente ex-post.

Cerchiamo di avere un rapporto molto diretto con i consulenti, coinvolgendoli fin dalle prime fasi del progetto, non affrontiamo mai il tema della forma in maniera esclusiva, senza considerare aspetti come la gestione delle acque, della statica o delle dispersioni termiche. Si tratta di un continuo dialogo tra pari.

Il mio ruolo è simile a quello del capitano di una barca, che indica una direzione, ma è consapevole di poter fare delle virate repentine se ne emerge la necessità.

L’obiettivo finale è che un progetto abbia il miglior compimento possibile. Per fare questo ci interroghiamo sempre su quale sia la strada migliore, imporsi o adattarsi? Nella nostra visione non ci sono dogmi, è antidogmatica, per cui non c’è giusto o sbagliato, ma esistono momenti in cui ci sono cose giuste che magari sono sbagliate in altri.

Di norma gestiamo internamente il progetto esecutivo, consapevoli che giunge un momento in cui il progetto deve avere un pacchetto finito, tutto deve in qualche modo condensarsi prima della gara di appalto, soprattutto ad esempio per le commesse pubbliche. Poi però interviene anche la Direzione Lavori, che per noi diventa in qualche modo una poesia.

Puoi modificare le cose anche in fase di realizzazione e sai che questo, a cascata, comporterà molte considerazioni, dal lavoro di riprogettazione, alla gestione dei costi, dei tempi. Ma mantenere il processo più aperto e il progetto più disponibile al cambiamento, leggere gli errori come opportunità anche in corso d’opera, questo per noi è fondamentale.

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Per gestire un processo così aperto l’informatizzazione è un vincolo o una risorsa? Lavorate in ambiente Bim?

Assolutamente sì, siamo passati a lavorare in Bim, è una necessità. Però per noi è ancora una fase di ricerca e di grande sperimentazione, per arrivare a capire esattamente come vogliamo lavorarci, come farne un uso adeguato al nostro modo di pensare.

Questo perché gli strumenti che si usano hanno un impatto sul modo di pensare e di conseguenza di disegnare. Come c’è una differenza tra un’architettura disegnata con il parallelografo e una disegnata con il tecnigrafo, anche oggi strumenti diversi influenzano il modo di disegnare e quindi di progettare.

Per cui ogni meccanismo di disegno e gestione del progetto architettonico offre delle potenzialità, ma nasconde anche delle insidie e delle trappole. In questa fase stiamo ancora perfezionando un mix di strumenti che ci consentano sì l’efficienza, ma che si adattino al nostro pensiero e non viceversa.

Che approccio avete nella gestione dei budget di progetto? La complessità in un processo così fluido ha dei punti di criticità, anche nella gestione dei tempi di progetto e realizzazione?

La gestione del budget è un tema di grande importanza. Si tratta certamente di un vincolo, ma anche di uno stimolo. Anzi per noi è più uno stimolo perché lavorando per mantenere il progetto più malleabile possibile anche in fase realizzativa, sappiamo che una delle sfide è fare in modo che alla fine l’economia complessiva del progetto sia invariata.

Questo vuol dire che nel pensare a una modifica in aggiunta, dobbiamo automaticamente considerare in che area del progetto andare a recuperare le risorse. È un tema in fondo di equilibrio, concetto che caratterizza tutto il nostro lavoro. Sul tema dei tempi la nostra considerazione è che tempi convenzionalmente considerati lunghi hanno un peso relativamente basso se rapportati al lifespan di un edificio. Più semplicemente, per fare un buon lavoro servono almeno quattro anni, il vino novello è subito pronto.

Per noi i progetti ‘lenti’ sono una risorsa, sono quelli dove riusciamo a far sedimentare gli aromi che si aggiungono nel tempo, a far emergere la ‘struttura’ del progetto grazie anche ai cambiamenti che avvengono magari all’interno dello studio stesso, su altri cantieri, su nuove persone che ci lavorano.

Ci sono chiaramente progetti per i quali la committenza ha esigenze diverse e siamo perfettamente in grado di essere molto rapidi, se serve, ma non mi dispero se un progetto resta per un po’ ‘nel cassetto’. Anche se è un grosso costo economico per lo studio, è un lusso che alla fine, sono convinto, porta un arricchimento al risultato finale.

In epoca di transizione verde, quale rapporto avete con i temi di sostenibilità ambientale?

Ci sono vari livelli di lettura della sostenibilità ambientale. C’è quello normativo, al quale rispondiamo sempre, ma ci possiamo considerare sostenibili unicamente per questo? Nell’architettura vedo molte risposte estremamente precise a domande molto vaghe sul tema della sostenibilità.

Formule esatte, medicine miracolose, che però poi devono fare i conti con il territorio dell’ingegneria, dei numeri e dei dati. Noi architetti siamo impreparati a gestire e utilizzare questi numeri, il nostro lavoro sulla sostenibilità dovrebbe orientarsi ad altro, a quello che i semplici dati non possono considerare: il come, i principi, i modi d’uso che se vogliamo sono dati ancora più complessi.

Siamo davvero certi che se dobbiamo raggiungere certi valori per le dispersioni termiche la risposta sia impacchettare i nostri edifici con schiume e poliuretani? Certo, si possono considerare materiali e fibre di origine vegetale, ma quanto sono scalabili? Il lavoro per l’architettura dovrebbe essere l’identificazione dei problemi e la comprensione di come poterli risolvere in maniera non generica, ma specifica.

Il tema dell’orientamento di un edificio o della dimensione delle aperture è un tema prettamente architettonico, non ingegneristico, ad esempio. Se devo ragionare sulla gestione delle acque non rispondo in termini di quanto grande deve essere un serbatoio di accumulo, ma cerco di capire qual è il ciclo dell’acqua in quel progetto, per cosa si usa, come la si usa e dare risposte di conseguenza.

A chi mi chiede di sostenibilità ambientale provocatoriamente rispondo di tenere il maglione in casa in inverno. Sempre tenendo a mente che non esiste un tema di decrescita felice, la sostenibilità non dovrebbe essere rinuncia, perché il progresso resta fondamentale nella nostra disciplina.

Su cosa state lavorando in questo momento?

In questa fase lo studio è molto impegnato su progetti che hanno quasi tutti una buona possibilità di vedere un compimento. Siamo molto dedicati a una scuola di cinema in Canada, uno di quei progetti che maturano lentamente.

In Friuli stiamo lavorando su una pinacoteca e su un grosso centro sportivo a Pordenone. Sempre in Canada abbiamo appena terminato una casa, che abbiamo chiamato ‘Flowing Water’ perché è costruita ragionando attorno al flusso delle acque nel sito. Stiamo lavorando come sempre su tipologie molto diverse. Per noi però il progetto più bello rimane quello che abbiamo nella testa e che ancora deve vedere la luce.

di Riccardo Maria Balzarotti
Politecnico di Milano

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