Pesa più un chilo di ferro o un chilo di carta? Era la classica domanda che alle elementari gli studenti più grandi ponevano ai nuovi arrivati il primo giorno di scuola e tutti immancabilmente rispondevano: ferro! Pesa di più un chilo di ferro. Vuoi mettere il peso del ferro con la levità della carta, pensavamo noi piccoli? E immancabilmente le risate dei più grandi ci preparavano all’esperienza che la scuola ci avrebbe insegnato da lì a breve.
Eppure, per l’ambiente un chilo di ferro ha un impatto di molto maggiore che un chilo di carta, per i complessi processi di estrazione e trasformazione, per l’intensità energetica dei processi produttivi, per il trasporto, eccetera. Non è un caso che l’industria dei metalli si chiami industria pesante e che l’impatto sull’ambiente dipenda in buona parte dalla distanza di provenienza dei materiali e componenti che devono appoggiarsi a soluzioni di trasporto energivore e inquinanti.
Lo studio degli impatti complessivi di un materiale o di una soluzione di progetto è codificato nella valutazione del ciclo di vita (Lca), che a volte sembra premiare, in maniera apparentemente inspiegabile, alcune soluzioni tecnologiche che i più considerano distanti dalla sostenibilità, ma su questo torneremo dopo.
In maniera certamente imprecisa, ma comunque abbastanza calzante, potremmo affermare che alle matrici «leggero e pesante» è possibile far corrispondere i due archetipi architettonici della tenda e della caverna. Interessanti lavori di ricerca hanno sottolineato come l’architettura della tenda si appoggi sul metabolismo per il controllo ambientale. I popoli, infatti, consumavano grande quantità di risorse per climatizzare i propri leggeri edifici non potendo affidarsi a involucri edilizi con sufficienti capacità di controllo e mediazione ambientale. Una volta consumate le risorse localmente disponibili (pascoli, legna, animali) le popolazioni nomadi migravano, cercando nuove risorse in territori ancora vergini.
La storia ci insegna che i barbari si mossero verso sud alla ricerca di cibo spinti dalla carestia e dalla generale diminuzione delle risorse disponibili arrivando a saccheggiare la capitale dell’impero romano. Al contrario i popoli stanziali, che nel Mediterraneo iniziarono a costruire città quasi 5 mila anni fa, scelsero di ricercare un delicato equilibrio di convivenza con l’ambiente in cui si insediarono. Costruirono edifici pesanti, massicci e strutture urbane stabili, perché in quel luogo prevedevano di sostare senza limiti di tempo. A volte questa esperienza ebbe successo duraturo, altre funzionò per un certo periodo fino a quando la pressione antropica sull’ambiente non ne provocò il collasso. L’esempio della mezzaluna fertile tra il Tigri e l’Eufrate è un interessante esempio a riguardo.
Resta il fatto che l’idea di radicamento presuppone una profonda e necessaria relazione con l’ambiente di tipo circolare, mentre l’idea di mobilità contiene in sé un approccio lineare di uso e consumo delle risorse.
Noi siamo figli della mondializzazione, del movimento moderno e dello stile internazionale che, proprio perché è tale, non è radicato in alcun luogo e considera l’ambiente come un supporto per le nostre attività, con poca attenzione alla dimensione locale, ai cicli e alle complesse dinamiche ecologiche che caratterizzano i diversi territori. Questo ha portato a un incremento esponenziale dei consumi nella produzione delle merci a cui gli edifici non sfuggono.
Spesso come progettisti operiamo scelte senza alcuna preoccupazione rispetto alla cultura materiale locale, ai tipi edilizi sedimentati e persino con poca preoccupazione rispetto alle attività che si andranno a insediare negli edifici, quasi che sia possibile separare il progetto di architettura dagli obiettivi di controllo dell’ambiente, assegnando questi obiettivi unicamente alle soluzioni impiantistiche. Gli impianti diventano così una sorta di protesi ortopedica per rendere abitabili i nostri edifici e l’homo sapiens sembra essere l’unica specie animale incapace di costruirsi una tana in cui si vivere in maniera confortevole… A meno di non ricorrere a ingenti risorse energetiche, ovviamente.
Una sana «cultura del pesante» in architettura richiede attenzione al clima e alle risorse locali, alla provenienza dei materiali, esige un approccio passivo nell’uso dell’energia. Non basta dire pietra, bisogna dire quale pietra, seguirne il percorso e la storia. Il marmo di Candoglia utilizzato nella costruzione del il Duomo di Milano veniva dall’alto Lago Maggiore, appena cavati i blocchi erano fatti scivolare lungo le lizze per essere direttamente caricati su chiatte che, scendendo, li portavano alla rete dei Navigli milanesi, da lì al Laghetto, e quando questo venne interrato, alla Darsena, per poi essere trasportato su carri solo l’ultimo chilometro e giungere alla fabbrica del Duomo.
Pietra, dunque, ma spostata sempre in discesa, in maniera semplice e con poco dispendio di energia. Sarebbe stato quasi impossibile e del tutto insensato costruire il Duomo con tufo del Lazio o porfido del Trentino. Oggi, invece, facciamo proprio così. Costruiamo edifici con legno austriaco, finlandese o addirittura canadese, usiamo marmi estratti in Trentino o in Brasile e non abbiamo la minima idea della provenienza dei materiali isolanti che utilizziamo.
Un ultimo elemento di stimolo e riflessione è quello che dovrebbe guidare la scelta di chi cerca di fare un progetto ecologico (ammesso che questa aggettivazione abbia un senso). Non sempre la scelta della soluzione a impatto minimo risulta la migliore dal punto di vista generale. Ricordo la scelta del Wwf svizzero, che negli anni Ottanta provò a comparare come confezione per il latte l’uso di bottiglie in vetro con vuoto a rendere rispetto alla confezione monouso in tetrapack. I complessi calcoli indicavano come scelta (leggermente) migliore la confezione monouso, purtuttavia si decise di promuovere l’uso della bottiglia di vetro a rendere. L’idea era che inculcare una logica di riutilizzo, piuttosto che di consumo, avrebbe potuto indurre comportamenti virtuosi nella popolazione.
di Alessandro Rogora, Politecnico di Milano (da YouBuild n. 24)