Le emergenze pongono i progettisti davanti a tanti ostacoli, soprattutto per il reperimento delle risorse economiche e di materiali; Alessio Battistella, del dipartimento di architettura e studi urbani Politecnico di Milano, al convegno YouBuild ha spiegato, attraverso una serie di progetti realizzati in diverse parti del mondo, come si possono risolvere problemi apparentemente insuperabili.
«Attualmente sono assorbito dal Politecnico, però sono anche presidente di Arcò, Architettura & Cooperazione. È una cooperativa di ingegneri, architetti e sociologi; ci occupiamo soprattutto di emergenze umanitarie, quindi il concetto è capire come essere rigenerativi in situazioni in cui non hai altre alternative.
Qui devi per forza andare nella direzione di “auto alimentarti” e vivere di quello che hai, di quello che stai facendo e di quello che riesci a produrre. Non ci occupiamo di sostenibilità, perché abbiamo già superato abbondantemente, su una serie di indicatori, il punto di non ritorno; quindi, ora bisogna lavorare di più sul cercare di rigenerare quello che abbiamo».
Materiali locali
«In Albania, in un contesto rurale, abbiamo iniziato guardandoci intorno, guardando cosa avevamo a disposizione; eravamo vicino a una fornace così abbiamo riusato il modulo del mattone come elemento espressivo, come linguaggio architettonico e quindi lo abbiamo fatto diventare ciò che è poi il tema di progetto per l’architettura.
Girando un pochino nelle campagne mi sono reso conto che si usava un tempo un’altra tecnica che si chiama “torshì”, una tecnica fatta con canne da fiume, legno flessibile e terra cruda e quindi parlando di prefabbricazione abbiamo creato in loco un sistema di prefabbricazione di pannelli a costo zero.
Canne da fiume, cornice in legno e terra cruda, praticamente clay e sabbia, e questo diventa poi il nostro modulo su cui abbiamo creato i pannelli di tamponamento e le aperture. Le finestre hanno altezze differenti in funzione anche dell’apporto gratuito di luce naturale all’interno dell’edificio.
Tutti questi edifici hanno ottime prestazioni dal punto di vista del passivo». Ecco il punto “il passivo” come indicatore di traiettoria. «Sono un forte sostenitore del passivo prima che dell’attivo. Cioè non esiste buona architettura se prima non si è portato alle estreme conseguenze tutto ciò che è passivo, ciò che è buon senso. Cosa che si è persa abbondantemente negli ultimi anni». Nuova realtà e nuovo progetto.
Autocostruzione
«A Milano abbiamo realizzato un padiglione che è una sorta di manifesto, un corso di autocostruzione con i richiedenti asilo. Lo abbiamo realizzato con tutti i materiali non convenzionali riutilizzati: le bottiglie sono state riutilizzate come mattoni, chiaramente con della calce per tenerle insieme. Abbiamo visitato alcuni cantieri della zona ed abbiamo raccolto tutte le finestre che con il 110 si buttano via, finestre ancora piuttosto prestanti.
Con queste abbiamo realizzato la facciata che diventa una sorta di manifesto. Abbiamo usato gli air bag nell’altra parete che sono ottimi per fare – secondo il nostro punto di vista – dell’inerzia. Però questo è veramente un padiglione dimostrativo». Ma è nelle difficoltà vere che bisogna aguzzare l’ingegno.
«Nella striscia di Gaza – ambiente piuttosto attuale – abbiamo cercato di costruire una filiera. Come sapete a Gaza c’è un embargo, non possono entrare materiali convenzionali e quindi o diventi rigenerativo o muori. Abbiamo dato l’opportunità di creare una filiera che potesse lavorare lì; abbiamo puntato sui mattoni compressi, la mescola si trova lì vicino, si fanno le mescole lì sul posto, si comprimono i mattoni, si aumenta esponenzialmente la resistenza meccanica del mattone e poi abbiamo risolto il tema del tetto perché non si riescono a trovare tanti materiali.
Abbiamo lavorato col buon senso, col progetto, con l’architettura. Attraverso l’uso della volta nubiana una volta che semplicemente si performa, sta in piedi – abbiamo creato questo edificio che si rifà alla cultura locale perché questo, il creare identità, è un altro tema che secondo me viene dimenticato un po’ nel tema del rigenerativo. Secondo me tutto il tema sociale dovrebbe essere inserito e ripreso in considerazione per fare riappropriare le comunità locali e noi tutti della direzione in cui vogliamo andare».
In Bolivia
Da un continente all’altro alla ricerca di nuove sfide, di nuove soluzioni; il professor Battistella porta idealmente i suoi uditori in Bolivia. «Siamo a 4000 metri di altezza, un freddo allucinante. Gli impianti non li ha nessuno, non ci sono sistemi di riscaldamento.
Abbiamo avanzato una proposta; non avevamo soldi, non avevamo nulla e volevamo proporre qualcosa che potesse isolare ed aumentare l’inerzia: un tetto verde. Non c’erano materiali per fare il tetto verde – anzi invito le imprese ad inventarsi un materiale – ed allora abbiamo stimolato la società. Grazie ad un appello in radio, abbiamo raccolto tappi di bottiglie.
E con queste abbiamo fatto un tetto verde low tech, low cost, low tutto quello che volete, ma high performance. Si è veramente creato un evento nella città più brutta in cui sia mai stato ed ho viaggiato parecchio, Oruro. Lo strato filtrante realizzato con scarti di lana pressati ce l’hanno regalato al mercato; gli studenti di agraria hanno messo a dimora le piante; la terra l’ha regalata il Comune. Così abbiamo fatto un tetto verde con step molto basici, ma ripeto funziona e sta ancora funzionando».
A Gaza
Altra sfida, altro salto spazio-termporale; si torna a Gaza per conoscere un lavoro che è stato co-progettato con Mario Cucinella. «In questo caso siamo riusciti nel primo vero esperimento all’interno del mondo della cooperazione. Un mondo che purtroppo non presta molta attenzione a tutto il tema dei consumi energetici, spesso è soltanto un “flaggare” una lista di cose che bisogna fare, ma si lavora con bassissimo livello di qualità spendendo un sacco di soldi.
Abbiamo provato a spendere pochi soldi (abbiamo fatto tutto con 130 mila euro), raggiungendo dei livelli altissimi di sostenibilità: raccolta le acque meteoriche, raccolta e riutilizzato le acque grigie, e avremmo potuto usare anche le acque nere però per questioni culturali non siamo riusciti a convincere i committenti. Però avevamo creato un sistema low tech molto semplice, un sistema di filtri.
Le imprese potrebbero occuparsi della progettazione innovativa di filtri perché la cooperazione italiana spinge sulla promozione delle imprese italiane all’estero. Abbiamo sviluppato un doppio tetto che crea un movimento convettivo fra un tetto e l’altro, con dei principi molto basici, che ha reso inutile l’impermeabilizzazione del tetto». Il progetto ha cambiato radicalmente la vocazione di un’area.
«Eravamo in un parco giochi, avevamo una vasca, avevamo le piante che aiutavano nella depurazione delle acque. Tutto intorno dai bagni usciva l’acqua che affrontava un percorso con diverse granulometrie che aiutavano a filtrarla e sotto avevamo il grande tank che raccoglieva anche le acque meteoriche.
In una prima fase abbiamo scavato perché l’edificio era parzialmente ipogeo; abbiamo usato la terra di scavo per costruire tutto l’edificio. La cosa assurda che succede qua in Italia, invece, è che tutte le terre di scavo vengono considerate rifiuti speciali e le buttiamo quando invece potremmo usarle tranquillamente per un sacco di prodotti super innovativi, tipo mattoni, intonaci e via dicendo.
Dunque, abbiamo scavato e siccome non avevamo la mescola giusta in quel luogo lì, abbiamo deciso di usare gli air bag perché è quello che avevamo a disposizione. Siamo in una zona di guerra e cosa fanno nelle zone di guerra, fanno le trincee; quindi, abbiamo usato lo stesso materiale usato per le trincee ed abbiamo trasformato il simbolo negativo della guerra in un simbolo positivo per l’intera comunità che di fatto ha imparato una tecnica nuova.
Abbiamo trasformato tutto ed è una cosa che funziona, è solo molto faticosa; essendo semplicissimo, si dovrebbe studiare e capire come poterlo fare automatizzando alcuni processi. A quel punto è una tecnica che si potrebbe utilizzare anche qua».
Idee e progetti
Mutuare idee e processi però non è sempre facile, come ha spiegato ancora Battistella. «La stessa tecnica che qui in Italia non mi hanno permesso di utilizzare nemmeno per fare la cantina per stagionare il salame, ha resistito a tre bombardamenti. Qui non me la facevano fare per questioni strutturali, perché non era antisismica. Eppure, il muro era anche flessibile.
Poi abbiamo portato un po’ di argilla, siamo riusciti a fare tutta la parete interna con i mattoni e abbiamo fatto il primo impianto fotovoltaico all’interno della striscia di Gaza portando gli impianti grazie al mercato nero. Adesso conoscete tutti i tunnel dall’Egitto, ne avete sentito parlare; ecco io ci ho portato il fotovoltaico.
Tetto bianco chiaramente perché non assorbe il calore e con una forma che evoca le tende beduine di un tempo; questo è un villaggio beduino ed abbiamo colto l’occasione di creare identità attraverso una forma che è anche un modo ottimo per raccogliere più acque meteoriche possibile. E ci permetteva di dare anche l’inclinazione giusta per ottimizzare nel modo migliore possibile i consumi energetici.
Mettere tutto insieme è un po’ il tema che interessa a me, quello che sto facendo al Politecnico e quello che ho fatto con Arcò fino ad ora. Cercare il linguaggio della sostenibilità, ma come? Partendo da principi passivi che possiamo spingere nella direzione della sostenibilità chiudendo il ciclo, chiudendo il cerchio. Siamo sempre in un’economia circolare: ciclo biologico e ciclo tecnico.
Cerchiamo sempre di lavorare più possibile col ciclo biologico, attraverso materiali naturali, e dove non è possibile lavorare per la durabilità. Deve durare più possibile attraverso il design o semplicemente perché rimane: la città di pietra. Purtroppo, questa scuola è stata distrutta e temo che un’altra uguale sarà distrutta a breve; noi come genere umano, invece di lottare tutti insieme per affrontare la crisi climatica che abbiamo creato, continuiamo a fare queste idiozie».