Data-driven e regenerative design: il ruolo dei materiali

Scale differenti, differenti parametri rischiano di creare confusione anziché diventare punti di riferimento per progettisti e produttori. Fare chiarezza non è affatto semplice, ma è troppo importante per creare edifici davvero rigenerativi.

Nella “selva oscura” delle certificazioni è necessario un Virgilio che indichi la via; Giambattista Brizzi – senior sustainable consultant presso Deerns, società d’ingegneria specializzata nella progettazione e nell’ottimizzazione degli impianti per gli edifici ad alte prestazioni, fissa alcuni paletti per portare luce in questo delicato settore.

Certificazioni, salubrità, rinnovabili

«Come società di ingegneria, ci troviamo ad affrontare le tematiche del mercato e quello che abbiamo visto in progetti eccellenti, con target estremamente ambiziosi che obiettivamente sono complessi da portare nel panorama italiano e nel panorama quotidiano. Al nostro interno abbiamo un gruppo di building performance che si occupa di sostenibilità affiancando i progettisti per la parte di progettazione impiantistica ma anche architettonica, per portare i progetti in una nuova direzione.

Questa è un po’ l’evoluzione delle sfide che ci hanno impegnato nel corso degli anni; all’inizio dal 2005 si parlava di sostenibilità e biodiversità e sono nate le prime certificazioni arrivate poi in Italia, il Leed ed il Bream. In Francia ci sono altre certificazioni, per esempio Dgnb di matrice tedesca. Sono poi arrivate le smart solution.

Con The Edge, progetto realizzato in Olanda, abbiamo incrementato l’utilizzo dello smart building misurando cosa effettivamente si può portare in un edificio.

Tutto questo è stato molto importante per noi perché abbiamo iniziato a comprendere i dati reali e a capire come si muovono i flussi delle persone, ma anche i flussi di energia e come queste attività generino emissioni.

Nel 2015 nello scenario italiano è arrivato il decreto Requisiti Minimi e nel 2021 è stato varato il decreto 199 per l’attuazione della direttiva Ue sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.

 

Evolutions of our challengers

Real Estate whole life carbon

Embodied, Carbon, Case studies

Comfort termico e consumi

Inoltre, con il Well si parla di migliorare l’efficienza e anche di migliorare gli standard di qualità della vita all’interno degli spazi confinati e quindi si parla di benessere dell’occupante.

Ciò significa incrementare la ventilazione, incrementare il benessere, con tutto quello che comporta anche rispetto al comfort termico; però questo vuol dire incrementare i consumi. Quindi come arriviamo al bilanciamento tra miglioramento delle performance ed incremento dei consumi per stare meglio all’interno degli spazi?

Regenerative design

Ecco un’altra sfida che ci porta al 2015, momento in cui tutte queste sfide si vanno a sommare e ci portano a parlare di regenerative design, anche se preferisco parlare di circular economy perché giungere al regenerative design è obiettivamente molto difficile.

Quindi preferisco concentrarmi su quello che si sta cercando di fare all’interno dei progetti attraverso alcune ricerche che stiamo sviluppando con dei tesisti e che stiamo applicando su progetti al momento riservati».

Operatività del team deerns

«Il nostro compito è principalmente l’analisi – ha spiegato Brizzi – in particolare mi occupo di computational design, fondamentalmente uniamo la fisica tecnica a modelli tridimensionali e lo facciamo anche attraverso la formazione, le collaborazioni e soprattutto la ricerca, perché la ricerca è l’unico modo per capire come portare sul mercato l’innovazione. Per affrontare il tema delle emissioni, quindi, della decarbonizzazione del costruito, vorrei portare come esempio concreto lo sviluppo di Shanghai.

L’esempio di Shanghai

In 25 anni la città è cambiata drasticamente, guardando le immagini di una stessa veduta cittadina scattate nel 1987 e nel 2013 si può notare l’enorme cambiamento; sulla città si sono riversate grandi tonnellate di vetro, acciaio, cemento, plastica.

Nel contempo c’è stato un incremento della prosperità economica, una maggiore istruzione, una maggiore formazione. I grandi grattacieli avranno sicuramente grandissimi target ed ambizioni di certificazioni che li portano ad essere green building; quindi vediamo da una parte la crescita positiva per l’uomo, dall’altra le grandi emissioni che ha il settore del real estate».

Ecco il nocciolo del problema: le emissioni. Ma come si calcolano ai fini della certificazione?

Calcolo delle emissioni e certificazioni

«Innanzitutto cerchiamo di capire i criteri di base. Quando si parla di operational carbon facciamo riferimento alle emissioni legate alle energie; una volta venivano espresse in chilowattora, ora il consumo energetico diventa una conversione in emissioni, in questo modo le possiamo unire e calcolare attraverso chilogrammi o tonnellate di CO2 equivalenti che si vanno a sommare all’embodied carbon, ossia quello che impatta sui materiali.

Mentre l’operational indica l’energia che il nostro edificio consuma nel corso degli anni da quando diventa operativo, per esempio lungo un ciclo di 60 anni, le emissioni legate al carbonio incorporato nei materiali impatta soprattutto nel momento in cui l’edificio viene costruito.

Per questo è una voce importantissima e pesante all’inizio e ha dei picchi negli anni, quando si effettuano interventi di rifunzionalizzazione, di manutenzione, di sostituzione di elementi e a fine vita. È facile comprendere quindi la rilevanza dell’intervento che eseguiamo sui nostri edifici quando li progettiamo; questa parte iniziale si chiama upfront carbon, rappresenta il carbon prima che il nostro edificio parta.

Ecco che i dati diventano fondamentali; per questo è molto importante parlare con i produttori, parlare con i progettisti per ottenere i dati che, una volta immagazzinati, vengono valutati dal mio team per trovare le soluzioni più adeguate. Per esempio, analizzando i dati di riscaldamento e raffrescamento, possiamo tracciare modellazioni energetiche sugli edifici e calcolare i dati dell’embodied carbon.

Ossia i dati legati ai materiali, ai componenti edilizi, attraverso i quali si ottengono i dati del nostro edificio, che ci permettono di prevedere quelle che saranno le emissioni legate agli edifici». Ora che sono stati raccolti i dati, si può passare alla certificazione. Ma anche questa è una strada in salita.

«Abbiamo una costellazione di certificazioni che possono anche diventare esempi virtuosi per il panorama italiano; noi abbiamo introdotto i criteri ambientali minimi e se li chiamano minimi ci sarà un motivo. Ci sono le certificazioni Leed e Bream che sono quelle principalmente utilizzate a sostituzione o come elemento di certificazione valido e conforme per verificare i criteri ambientali minimi.

Poi c’è un framework europeo, il Level(s), che serve per la contabilizzazione delle emissioni per la taxonomy. Se parliamo di Leed e Bream ricordiamoci che assegnano punti; quindi, quando progettiamo, andiamo a fare una check list dei settori in cui prendiamo punti semplicemente perché abbiamo degli Epd.

Basta avere una certificazione di prodotto ed otteniamo dei punti; otteniamo dei punti poi se facciamo un life cycle assessment, indipendentemente dalla bontà effettiva del progetto. Il Leed va a premiare se siamo migliorativi del 5 o del 10%, se noi siamo migliorativi più del 10% non porta alcun punto, cioè potremmo essere migliorativi del 20, del 30 e del 40% senza comunque ottenere punti. È chiaro che se un’azione non porta alcun punto il progettista, preso dalla fretta, si accontenta dei punti ottenuti e si concentra su altre voci».

Sistemi di certificazione

Quali sono le differenze fra i vari sistemi di certificazione? «Andiamo a confrontarli – ha risposto Brizzi – che è quello che facciamo nella ricerca. Confrontiamo ad esempio il Leed, il Bream e il Level(s) e vediamo che, quando facciamo un Lca, le metodologie applicate sono molto diverse.

Ogni framework ha richieste obbligatorie ed altre non obbligatorie; ci sono differenze all’interno proprio delle fasi che devono essere considerate quando eseguiamo un life cycle assessment; consideriamo sempre il ciclo di vita, ma con metodologie diverse.

Il Leed ne prevede alcune, il Bream altre e il Level(s) altre ancora non sempre sono uguali; anche solo guardando le tabelle, senza entrare nei numeri, vediamo quanto sono diverse le risultanze di valutazione: Ciò significa che le certificazioni fra di loro non sono del tutto comparabili, nonostante poi tutte forniscano un valore di chilogrammi di CO2 equivalente. Il rischio, se non si è bene informati, è di confrontare risultati non tanto simili. Vediamo gli elementi che vengono presi in considerazione.

Se facciamo un ciclo di vita con Bream a punteggio minimo prendiamo in considerazione soltanto alcuni elementi; se utilizziamo il Bream per ottenere il massimo dei punti devo considerarli tutti. Lo stesso accade con Level(s). Confrontando le diverse certificazioni otteniamo risultati diversissimi.

E li otteniamo anche nella consapevolezza di cosa impatta in un nostro edificio. Se usiamo il Leed non stiamo considerando gli impianti, quindi se le strutture che potremmo voler ottimizzare hanno un impatto di circa l’80% abbiamo l’illusione di lavorare sulla voce più importante da ridurre.

Le facciate, ad esempio, se guardiamo un Bream minore impattano per il 43%; lavorando sulle facciate ed ottimizzando l’involucro si rischia di pensare di avere risolto il 43% dei problemi. Ma se utilizziamo un sistema più completo come il Bream completo o il Level(s) vediamo che le facciate corrispondo ad un 18 o a un 12%, quindi fondamentalmente rischia di essere fuorviante concentrare tutte le energie su alcuni elementi basandosi su un framework che potrebbe non essere idoneo.

Considerando i risultati, a livello complessivo il nostro edificio, se utilizziamo una certificazione Leed potrebbe avere un risultato del 40% in meno stesso rispetto all’utilizzo di un’altra certificazione. Non solo, il Level(s) si avvicina molto al Bream però concede 50 anni anziché 60 di vita all’edificio.

Quindi considerando il Level(s) su un arco di 60 anni, l’impatto sarebbe ovviamente maggiore e il franework risulterebbe più completo. Il discorso può essere applicato ad elementi diversi, quindi scaricando risultati da internet e comparandoli o leggendo disclaimer sulla bontà dei progetti, se la metodologia è diversa, rischiamo di comparare mele con pere.

E se confrontassimo i dati con quelli che sono i target Riba, in base alla certificazione utilizzata, potremmo veder collocato lo stesso edificio in una fascia A+, B o D. Fare chiarezza è fondamentale perché è attraverso i dati che il mio team riconosce gli elementi che impattano di più e decide dove andare a lavorare. Al di là delle singole certificazioni, possiamo affermare che al momento che i livelli di green high performance, sono\molto lontani dalle direttive».

Dove stiamo andando

Compreso il punto in cui ci troviamo, è adesso necessario capire dove stiamo andando. «Cerchiamo di spostarci andando verso lo zero; andare verso la parte rigenerativa mi sembra al momento troppo difficile. Lo facciamo attraverso certificazioni come la Zero Carbon che riguarda il ridurre, per poi andare in offset delle emissioni di operational della parte di energia.

Un’operazione che richiede di ridurre la parte di embodied carbon e di andare a coprirla con un offset, quindi andare poi a coprire come se fosse una carbontax quelle che sono le emissioni legate ai materiali. Questa certificazione chiede di ridurre del 10% rispetto a una baseline, ma soprattutto dà un target e quindi è una delle prime volte che vediamo dei target di embodied carbon.

Non si tratta più di realizzare un ciclo di vita ottenendo un punteggio rispetto ad un determinato numero, ma ho un target che in questo caso è relativo all’upfront carbon e devo raggiungerlo. Consideriamo un edificio, sei piani di uffici, analizziamolo per poter applicare poi le risultanze al progetto.

Dove siamo collocati se dovessimo utilizzare una struttura in calcestruzzo dove non applichiamo alcun tipo di sostenibilità o di riciclo? Siamo ad 849 dell’upfront carbon e rispetto al 500 richiesto, siamo abbastanza lontani; se poi guardiamo l’embodied carbon completo siamo a 1365 chilogrammi di CO2 equivalente al metro quadro, quindi è da lì che da chilogrammi passiamo a tonnellate appena lo moltiplichiamo per i metri quadri dell’edificio.

Applichiamo le norme di progettazione, i criteri ambientali minimi, percentuali di riciclo e passiamo a 822. Siamo ancora lontanissimi dal target, anche se siamo estremamente vicino a una progettazione standard. Applicando i criteri ambientali minimi otteniamo prodotti conformi e puntiamo a un tipo di certificazione di scarso valore.

Allora dobbiamo arrivare a soluzioni ottimizzate, che vadano a ottimizzare non soltanto la struttura, per esempio misto legno; andiamo a migliorare anche le facciate, a capire quanto impatta il vetro, quanto impatta la parte opaca, anche perché nel contempo dobbiamo utilizzare un sistema parametrico perché non dobbiamo dimenticarci che dobbiamo andare a coprire al 100% la parte energetica del nostro edificio.

Quindi facciamo una comparazione di come i Cam si distanziano di pochissimo dal business as usual e come invece con soluzioni ottimizzate andiamo sotto i 500 chilogrammi».

Come raggiungere questo target

«Se noi utilizziamo un sistema tradizionale, dopo avere ottenuto i risultati dei modelli e le quantità dei materiali, facciamo un energy modelling, facciamo un calcolo di impatto di embodied carbon, mettiamo insieme tutto quanto ed abbiamo una rendicontazione. Quello che risulta ce lo teniamo. Ma se abbiamo un target è impossibile raggiungerlo se utilizziamo gli standard normativi.

Oltretutto i Cam sono  applicati soltanto al pubblico. Per raggiungere il target dobbiamo operare in modo differente, attraverso una progettazione parametrica. Si raccolgono i dati, si assemblano e si informa il team di progettazione; a volte è necessario ripetere qualche operazione perché una parte magari è opaca, per ridurre la componente vetrata per limitare il grande impatto che ha il vetro e così facendo si migliorano le prestazioni di edificio.

Questo lavoro viene eseguito attraverso sistemi computazionali che fondamentalmente partono da input, senza dei dati di input noi non possiamo fare nulla; poi li mettiamo insieme, ottenendo dei risultati che stimolano i progettisti.

I dati sono la parte fondamentale, la valutazione dei building materials ossia l’Epd diventa discriminante a seconda che il nostro riferimento sia il semplice rispetto dei Cam o se abbiamo un altro target. In questo secondo caso non basta avere l’Epd; attualmente l’Epd specifico dà un vantaggio perché porta un punto nella certificazione. Ma non basterebbe se vogliamo ambire a certificazioni Leed particolarmente prestigiose, anzi un Epd specifico potrebbe avere addirittura un impatto peggiorativo, rispetto al minimo che potrebbe essere richiesto ai Cam.

Quindi è necessario valutare gli Epd che sono una sorta di carta d’identità da analizzare criticamente; avendo un sistema previsionale di target dobbiamo analizzare l’edificio, i componenti, i materiali per stabilire l’impatto per ogni singolo elemento.

Per cui da database generici ricaveremo indicazioni di impatto che dovranno essere stabilite altrimenti il target non lo raggiungiamo. Conoscendo i componenti ed i dati degli Epd possiamo intervenire qualora non si raggiunga il target ottimizzando il progetto.

Oggi la trasparenza è premiante, ma domani avremo dei target da raggiungere e bisognerà capire come andare a migliorare prima di giungere alla rendicontazione finale. Un risultato ottenibile solo studiando i componenti e studiando i materiali». Le certificazioni però non sono l’unico dato da considerare quando si desidera ridurre l’impatto di una costruzione.

Off-site e design for disassembling 

«C’è qualcosa che è il concetto di economia circolare – ha concluso Brizzi – consideriamo per esempio il villaggio olimpico Milano-Cortina dove un riutilizzo degli edifici, delle strutture esistenti ha aiutato a ridurre l’impatto delle emissioni attraverso l’utilizzo di prefabbricazione per le strutture.

È stato sicuramente qualcosa che ha migliorato tantissimo le prestazioni, ma siamo arrivati a dover modellare e a studiare elementi modulari, come ad esempio i bagni; per cui la prefabbricazione del singolo componente edilizio o anche del modulo ci permette un controllo completo di quella che sarà la prevision delle emissioni dell’edifico.

Non dobbiamo inoltre scordare uno dei temi più importanti, la flessibilità richiesta anche dalla tassonomia; in questo caso questo complesso avrà una completa conversione. Ospiterà gli atleti e poi diventerà un campus di residenze per studenti, per cui risulta fondamentale applicare la logica del design for disassembling, un approccio virtuoso e premiante anche sul fronte delle emissioni del nostro edificio.

Un tema che dovremmo applicare al patrimonio storico immobiliare italiano: la flessibilità permette agli edifici di vivere 100, 200, 300 anni ed essere convertiti da residenza a uffici, per tornare a residenze. La conversione e la longevità, quindi building to last, è sicuramente un’altra strategia che a volte viene dimenticata, ma prolunga la vita dell’edificio e garantisce a questo di poter veramente ridurre l’impatto».

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