Risulta sempre dissonante un certo tono accusatorio, quando non di acredine, espresso nei confronti del nostro patrimonio edilizio. Sono le case nelle quali siamo cresciuti, che ci accolgono ogni sera, che ci salutano ogni mattino.
Case nelle quale cresciamo i nostri figli e nipoti, edifici che ogni giorno ci proteggono, come possono, come gli consentiamo; sono le case lasciateci in eredità da chi ci ha preceduto; magari potevano fare meglio – quel meglio oggi è compito nostro.
Ma se oggi possiamo fare meglio è anche grazie a ciò che è già stato fatto, in epoche molto diverse a quelle dove abbiamo la fortuna di vivere.
Il recente studio “The building stock as an urban mine: The case of the circular regeneration of disused buildings” pubblicato su Sustainable Chemistry and Pharmacy (volume 33, June 2023, 101104) illustra un interessante caso di studio che, nell’auspicata dimensione di economia circolare, propone esperienze e metodologie di mappatura con la quantificazione dei materiali disponibili su scala locale, compresi quelli incarnati nel patrimonio edilizio.
Si riconosce quindi, tra i valori del patrimonio esistente, quello dell’energia grigia incorporata (Embodied Energy), ovvero la somma dell’energia occorsa per la produzione e il trasporto dei materiali che lo compongono, l’energia occorsa alla sua realizzazione e, successivamente, al suo mantenimento.
Nella valutazione dell’opportunità, in chiave energetica e di sostenibilità, del recupero di un fabbricato esistente non va così dimenticato il valore dell’ “energia grigia” incorporata che, in caso invece di demolizione e smaltimento come rifiuto, sarebbe definitivamente disperso, senza considerare l’aggravio per il suo smaltimento e il relativo impatto ambientale.
Prima della sostituzione
Analogamente al mondo degli oggetti, le “tre R” dell’edilizia – Riduci, Riqualifica (Rigenera), Riusa – possono rappresentare un buon criterio ispiratore, prima di decretare come soluzione ottimale la sostituzione. Immaginare le nostre città come una miniera di materiali ci consente un cambio di punto di vista nell’apprezzamento di quello che c’è, del loro valore intrinseco.
Ma le nostre città, i nostri quartieri e periferie non possono essere ridotti a mera merce, una sorta di sterminato mercato dell’usato. Dimenticheremmo quell’immenso e silenzioso patrimonio immateriale costituito dal portato di memoria e di possibilità di identificazione.
Sostenibilità: non è solo una questione energetica
Un rinnovo indiscriminato e inconsapevole oblitererebbe ogni possibilità di sedimentazione e storicizzazione; al contempo, soffocherebbe la capacità collettiva di identificarsi con gli spazi di vita, impedendo ai luoghi di divenire tali e rimanendo solo spazi funzionali privi di significato.
Nel cancellare la possibilità di storicizzazione del patrimonio più recente – non consentendogli di diventare antico, al massimo vecchio – viene impedita alla città contemporanea, alle nostre periferie, di acce- dere alla loro specifica e unica dimensione temporale.
Il paradosso
Un rinnovo indiscriminato crea così paradossalmente degrado; un degrado che nasce dalla mancata identificazione con gli spazi in cui si vive, spazi che non riconosciamo come “nostri”; spazi che, quindi, si subiscono, si tollerano oppure si rifiutano. Spazi senza un passato e non costruiti per un futuro, per utenti consumatori non più abitanti, senza memoria.
Così interi quartieri – nuovi o “rimessi a nuovo” – stentano a diventare Città, rimanendo “aggregati urbani” o “non-luoghi” – perché la Città, prima che di mattoni e cemento, è fatta dalle reti sociali che ne costituiscono l’anima, della fitta rete dei ricordi, di significati, delle speranze che sono i mattoni del loro futuro. Un rinnovo indiscriminato lascerebbe le nostre periferie senza anima e percettivamente a-temporalizzate; senza storia né memoria, in un presente sostituibile all’infinito.
L’antropologo Marc Augè scriveva, oramai vent’anni fa, lanciando un barlume di speranza: “La storia futura non produrrà più rovine. Non ne ha il tempo. Sulle macerie nate dagli scontri che inevitabilmente susciterà, si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo e al di là di esso, forse, la coscienza storica” (Marc Augè “Rovine e macerie – il senso del tempo” Bollati Boringhieri 2004).
di Silvia Nanni Architetto