Cultura del costruire: dalla distrazione alla consapevolezza

Siamo molto occupati – ma raramente impegnati. Occupati da mille incombenze, spesso artefatte, spesso indotte da necessità fittizie; e in effetti l’occupazione è qualcosa che viene dall’esterno, o che non è percepito come parte di noi.

L’impegno presuppone invece un percorso di ricerca personale, presuppone continuità, durata, e calma. Il “non avere tempo” è probabilmente la caratteristica, la cifra delle nostre frustrazioni quotidiane. È anche la cifra del senso di alienazione che comunicano molti degli spazi e brani di città che quotidianamente “occupiamo”.

Impegno

Un progetto fatto con cura è un impegno – e il tempo che possiamo dedicare a un progetto, allo studio e quindi alla competenza, il tempo dell’ascolto e della riflessione, è la dimensione necessaria senza la quale non esiste il prendersi cura; è solo “occupazione”.

Affrontare il recupero di un manufatto edilizio privo di particolari peculiarità è un viaggio alla scoperta del suo patrimonio immateriale, ancorché nascosto tra le pieghe della banalità o le piaghe lasciate dalla speculazione o dalla trascuratezza. E richiede tempo, il tempo dell’impegno.

È un viaggio senza biglietto di ritorno, alla scoperta del suo patrimonio intrinseco: le qualità specifiche degli ambienti, gli affacci, la libertà consentita dallo scheletro strutturale, il materiale che è possibile recuperare, anche in chiave di sostenibilità. Un patrimonio immateriale la cui riscoperta è prima di tutto un esercizio di memoria.

Tempo

Abbiamo bisogno di tempo – e della calma che solo il darci tempo può concederci – per rimettere il nostro fare, come per gli ambienti che costruiamo e viviamo, nella loro dimensione temporale, nello spazio della cura, nella dimensione della memoria, nel respiro dei sentimenti; nella Storia. Le nostre città sono uscite dalla dimensione storica non avendo concesso loro tempo.

La Storia, con il suo fardello di esperienza e di insegnamenti, è allontanata dall’attualità in un presente sempre rinegoziabile e sostituibile – come le case che fanno da scenografia alle molte vite che possiamo immaginare, tutti attori e tutti in fondo comparse di una vita spettacolarizzata.

Eppure, non è come nella nostra epoca che si sente l’impellente necessità di riconoscerci in un racconto, di unire i fili della quotidianità di ogni giorno nella trama di un ricamo da lasciare in dote a chi verrà dopo di noi.

E per comprendere e dominare lo spazio, per conferirgli un significato, personale e sociale, occorre il tempo dell’esperienza, il tempo lungo dell’abitudine, della familiarità, fino a che quel tempo lungo diventa racconto, diventa ricordo, diventa memoria, diventa storia.

Recupero

Così il lavoro di recupero di un edificio assomiglia sempre più al paziente lavoro del rammendo, che ricuce spazi slabbrati, ripara ciò che è rotto, rinforza ciò che è debole, consentendo al nostro presente di diventare ieri e poi memoria, e ai nostri edifici d’invecchiare.

Il fondamento della storicizzazione del presente è l’accettare quello che oggi appare inaccettabile: invecchiare. Accettare le rughe e accettare il naturale invecchiamento dei materiali e delle forme, accettare i segni dell’usura e dell’inclemenza del tempo che passa.

Si scopre così che recuperare – un edificio o un intero quartiere – non è cancellare o sovrascrivere ma un’azione di apprendimento e memorizzazione che riconduce il patrimonio edilizio – e un po’ anche noi – dalla distrazione alla consapevolezza.

di Silvia Nanni Architetto

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