Abbiamo visitato la 17esima Mostra Internazionale Biennale di Architettura di Venezia, aperta fino al prossimo 21 novembre 2021. Ancora prima di parlare riguardo a questa edizione anomala, postdatata di un anno rispetto alla canonicità temporale dell’evento, va sottolineato che malgrado tutto, e forse proprio per questo, è stata una grande festa, una boccata d’aria fresca che, complici anche condizioni metereologiche perfette, ha veramente fatto percepire che, dopo più di un anno di pandemia e chiusure, si sia sulla strada per un ritorno alla normalità.
Questo anche se il pubblico presente era metà di quello che partecipa normalmente al vernissage e non c’è stato il bisogno di correre tra un padiglione e l’altro perché, quasi incredibilmente, la mancanza della folla ha ridato una dimensione umana a tutto l’evento. Permettendo non solo di parlare con i curatori, ma anche di fare nuove amicizie. Una risposta veloce alla domanda che tutti si fanno: merita? Sì, vale la pena.
E non solo perché molte delle cose presenti e presentate parlano di architettura mettendo in mostra la vera connessione che esiste tra vita, responsabilità, coscienza e arte. Ma proprio perché pur togliendo l’eccesso di effetto instagram e la sovrabbondanza di stampa 3D, quello che resta è tanto. E tanto di questo è semplice e opportuno.
Il direttore, Hashim Sarkis, architetto libanese che insegna al Mit di Boston, con una fortuna incredibile ha centrato, prima dell’arrivo del covid-19, un tema quanto mai vicino e di buon senso: Come vivremo insieme? che ha assunto col tempo un ruolo molto più importante e diverso.
Il tema dello stare insieme, nato da una riflessione sociale e sociologica sugli spazi e i loro limiti al tempo dell’antropocene è diventato quanto mai importante durante questo anno di isolamento, a cui siamo sopravvissuti anche grazie alla tecnologia implicita nel sistema globale e globalizzante in cui viviamo. Quello che è il lascito di questa Biennale è la comprensione necessaria che viviamo tutti insieme e che tutti i sottosistemi cui spesso facciamo riferimento sono interrelati, nessuno escluso e che non c’è soluzione se non si inserisce questo parametro nell’equazione.
Cose già sentite, è vero, ma qui camminando per i padiglioni e le corderie, sembrano finalmente non più astrazione. Forse è tempo di mettere in pratica quello che l’avanguardia ecologista ci aveva detto 50 anni fa. E non più una sfida. Deve essere la nuova, semplice ovvietà delle cose. Dovunque noi siamo, dovunque saremo. Qualunque cosa si voglia progettare. In questo resoconto per punti non troverete tutto, ma solo le cose che ci hanno colpito maggiormente tra i padiglioni e quelle che ci hanno lasciato qualcosa. A voi verificare e soprattutto creare i vostri appunti personali dopo la visita.
La curatela di Alessandro Melis per il Padiglione Italia (leggi l’intervista rilasciata a YouBuild)necessita di due diverse prospettive per la sua osservazione. Quella del contenuto e quella del contenitore. Il primo è denso, ricco, e vuole introdurre il visitatore a un mondo di ricerca e ricerca applicata su quello che potrebbe avvenire nel nostro prossimo futuro, non solo nell’architettura, piuttosto attraverso l’architettura, con tematiche che si sono rivelate perfino anticipatorie della situazione pandemica quando il progetto fu presentato nel 2019. Il secondo però stenta a stemperare forme di entropia generate dalle complessità che occorrono quando si rompono i perimetri di una disciplina.
Comunità Resilienti fa una selezione di casi studio e installazioni site-specific, corredate da didascalie più simili a paper scientifici (di cui in molti hanno sottolineato i refusi, in una sorta di peer-review collettiva), che manifestano una grandissima e sincera affezione all’argomento e la chiara volontà di approcciarlo ridefinendo i confini della materia. Si trovano processi di architettura che diventano progetti (Tam associati + Arup, Elasticofarm), tecnologie in divenire (Mutual Aid), esperienze collettive (Laboratorio Peccioli) e installazioni-manifesto (Spandrel e Genoma), a testimoniare che il tema, l’architettura, è fatta di tutti questi elementi, fisici o teoretici, la cui sinergia dovrebbe proporre soluzioni o portare a domande nuove.
Tale sinergia però non appare manifesta nelle modalità espositive che appaiono spesso di difficile lettura e più simili a un collage di elementi dei quali è arduo trovare comunione se non nella dichiarata appartenenza allo stesso ambito. Non è semplice capire quanto la lettura ostica del padiglione sia frutto della sfida enorme di sintetizzare una nuova tassonomia della materia in una mostra tradizionale, non riuscendo a scardinare del tutto il concetto stesso di esposizione come collezione tematica di elementi affini.
Facendo un parallelo con l’ambito cinematografico, il Padiglione Italia è come uno di quei film di rottura sui quali è difficile dare un giudizio post-visione, ma che, anche nei giorni seguenti, lasciano il dubbio di aver davvero terminato il processo di elaborazione.
di Luca M.F. Fabris, Riccardo M. Balzarotti e Gerardo Semprebon, Politecnico di Milano (da YouBuild n. 20)