Nel suo libro “L’intelligenza dinamica” (2020) David Eagleman, neuroscienziato al Baylor College of Medicine di Huston, osserva che il nostro cervello “è terribilmente bravo ad assorbire quei segnali a cui assegna un significato. E con il significato si ha l’esperienza soggettiva”.
In quanto “organo che trasforma delle scosse elettriche al buio nel caleidoscopico spettacolo del mondo”, il cervello immagazzina, codifica e archivia sensazioni ed emozioni tramite lo scintillante universo dei circuiti sinaptici, che illuminano l’oscurità del nostro territorio cerebrale come le costellazioni disegnano le infinite traiettorie del cosmo.
Ma come riporta Michela Matteoli nel libro Il talento del cervello (2023), “I sistemi di memoria si sarebbero evoluti non tanto per archiviare le esperienze, quanto per poterle utilizzare migliorando le prestazioni future”. La tesi è formulata da un gruppo di ricercatori delle Università di Harvard e Toronto, secondo cui “la memoria riguarda il futuro, non il passato.
In altri termini, “il vero scopo della memoria è riuscire a utilizzare il passato per guidare in modo intelligente il processo decisionale, o decision making, cioè la capacità di scelta dell’essere umano, che porta a individuare la migliore strategia possibile tra le diverse alternative”.
Questo presuppone che qualsiasi operazione di rielaborazione e reinterpretazione delle nostre esperienze o conoscenze acquisite esiga una capacità critica ed al tempo stesso creativa, intrinsecamente connessa alla plasticità dinamica del nostro cervello ed alla nostra capacità di porre le esperienze stratificate al servizio di quelle prossime, di discernere dal passato quanto ci richiede il futuro.
“Il fenomeno affonda le sue origini nella notte dei tempi, quando i nostri progenitori vivevano nelle caverne e tornava loro utile ricordare che, per esempio, un frutto era nocivo per non tornare a cibarsene di nuovo” (M. Matteoli). O ancora nelle radure della Savana sud-orientale, dove circa due milioni di anni fa l’Homo sapiens traeva la ragione della propria sopravvivenza dall’osservazione del mondo naturale prima di ramificarsi in tutto il pianeta.
La quantità degli input che l’esistenza ci offre è fonte primaria che alimenta la nostra plasticità cerebrale; in quanto metronomo del metabolismo cognitivo, regola la nostra capacità di trasformare i ‘data’ in qualità dell’esperienza vitale.
Come la salute del corpo dipende dalla qualità dei cibi che ingeriamo e dai nostri comportamenti alimentari, così la salute neurale è conseguenza, oltre che del cibo, degli input che assumiamo e della loro qualità esperienziale.
Capite bene quanto sia determinante la configurazione degli spazi in cui dimoriamo sulla qualità della nostra vita. E capite ancor meglio quanto sia influente abitare un certo spazio piuttosto che un altro, almeno quando siamo liberi nella scelta.
Entro certi limiti, siamo arbitri di noi stessi: decidiamo di assumere cibi sani, di condurre uno stile di vita in armonia con i nostri equilibri psico-fisiologici, cercando di eliminare fonti di stress o malessere, il tutto all’interno dello spazio fisico che abitiamo, in cui lavoriamo o che scegliamo di frequentare, ovvero lo spazio della nostra esistenza, il teatro della nostra quotidianità.
Diceva dunque Santiago Ramòn y Cajal (1852-1934), neuroscienziato e premio Nobel: “Qualunque uomo può, se lo desidera, diventare lo scultore del proprio cervello”. Allo stesso modo, il progettista scolpisce la qualità esperienziale dell’uomo. “Diamo forma ai nostri edifici; quindi ci modelliamo” (W. Churchil, in “House of Commons Rebuilding”, 1943). “Il design di un luogo fisico influenza lo stato mentale delle persone che lì si trovano. Ciò modella i loro atteggiamenti e comportamenti”. (S. Augustin, 2009).
“La percezione può essere intesa come un modo di esplorare attivamente l’ambiente, per cui ogni azione è abbinata a un cambiamento specifico di ciò che viene trasmesso di ritorno al cervello”. A prescindere dal modo, il cervello si attiva per capire come l’output corrisponde all’input. Tutti gli input trasmessi al cervello (fotoni negli occhi, onde di compressione dell’aria nelle orecchie, pressione sulla pelle) vengono convertiti in impulsi elettrici che si diramano nelle sue varie “foreste neurali”, indipendentemente dalle loro porte d’ingresso.
Neuroscienza e sensi
Se la Neuroscienza tuttora indaga l’attitudine delle nostre strutture cerebrali a surrogare la perdita di un senso attraverso il meccanismo della cosiddetta sostituzione sensoriale le nuove frontiere della ricerca saranno sempre più orientate nel dimostrare come potenziare, arricchire, educare il mondo dei sensi, il nostro ‘sensorium’.
Oltre a riparare i sensi danneggiati, o sostituire quelli perduti (o di cui siamo privati per natura), la nostra plasticità cerebrale può trasformare e affinare i sensi esistenti.
Oltre alle suddette implicazioni, quale ruolo gioca il mondo della cultura e della conoscenza sul potenziamento e l’educazione dei sensi? Se la scienza medica può fornire importanti contributi sul piano neurologico, come la disciplina dell’architettura può orchestrare “il magico combinarsi di tutti i sensi” (D. Neutra), arricchendo la configurazione dello spazio per promuovere e migliorare il nostro benessere e la nostra esperienza vitale?
Così come “lo scopo di un dispositivo terapeutico è rimediare a un deficit per ripristinare le condizioni normali” (David Aegleman), scopo dell’architettura è configurare e dare forma al nostro “essere-nel-mondo” (Vittorio Gallese), in modo che l’ambiente educhi e sviluppi i nostri poteri sensoriali.
Con l’obiettivo di affinare prassi comportamentali in grado di allenare la stimolazione cognitiva, nei primi anni Ottanta del secolo scorso il medico Lamberto Maffei (n. 1936), allora Direttore dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr, intraprese una serie di ricerche orientate a indagare gli influssi esercitati da un ambiente ricco di stimoli (i ricercatori lo definirono “enriched environment”) sullo stato di salute della nostra plasticità neurale.
Il professor Maffei e il suo gruppo idearono il progetto “Train the Brain”, il cui protocollo prevedeva un insieme di attività cognitive, relazionali e fisiche in sostituzione di farmaci e procedure invasive.
Continuato da Michela Matteoli, il programma (“Train the Brain 2”) ha dimostrato, tramite tecniche innovative di scansione cerebrale (scanner a 7 Tesla), “come la combinazione di allenamento cognitivo ed esercizio fisico sia efficace nel ridurre il declino cognitivo e la perdita di volume della materia grigia”.
Molti dei comportamenti ritenuti fondamentali per la nostra salute psicofisica sono intrinsecamente connaturati all’organizzazione dei nostri spazi quotidiani e alla nostra relazione con l’ambiente naturale.
Natura per nutrire la mente
Com’è noto, gli esseri umani sono predisposti neurobiologicamente e psicofisiologicamente per connettersi con le forme naturali. Secondo Edward Wilson (1984) uno dei padri della biofilia – “abbiamo bisogno del contatto con la natura, e con la complessa geometria delle sue forme, tanto quanto necessitiamo per il nostro metabolismo di elementi nutritivi e di ossigeno”.
Il nutrimento neurologico derivante dal mondo naturale – con le sue risorse, le sue strutture, le sue forme – è condizione primaria per regolare e alimentare il nostro equilibrio biorealista. La nostra salute si fonda su meccanismi mentali e fisici che sviluppiamo in risposta all’ambiente naturale (Kellert, 2008).
In quanto organismi dotati di sensori che si interconnettono con il mondo esterno, è evidente come lo spazio vitale rappresenti il neurobioregolatore del nostro benessere psicofisico. Come conferma la recente ricerca scientifica, la plasticità cerebrale di cui siamo dotati consente non solo di equilibrare sensibilmente bensì di arricchire il nostro sistema biologico neurale.
In particolare, l’approccio dell’evidence-based design, sviluppatosi in ambito medico-sanitario, conferma come “gli esseri umani traggono sostanzialmente beneficio dalla presenza, nel loro ambiente di vita e di lavoro, di forme e strutture biologiche”.
Alcuni fattori cosiddetti ‘biofilici’, come luce e aria naturale, acqua, piante ed altre strutture naturali, costituiscono capisaldi fondanti dell’approccio biorealista, ma è dalla loro articolazione che dipende la qualità dell’esperienza spaziale.
Alcuni autori (Diette, 2003) dimostrarono come paesaggi o suoni tratti dalla natura potevano ridurre la percezione del dolore durante le broncoscopie; altri autori (Steemers, 2003) osservarono come alcune caratteristiche biofiliche influenzavano il benessere sensoriale dell’utente tanto quanto la variazione di temperatura.
Lo sapeva bene Richard J. Jakson, membro dell’unità ‘Healthy Cities’ dei Centers Desease Control di LA e assessore della salute pubblica della California, autore di una dissertazione sull’influenza dell’ambiente costruito sulla salute pubblica in un’edizione speciale dell’American Journal of Public Health.
Lo sostiene con forza Raymond R. Neutra (n. 1939), fondatore dell’Isee (International Society for Environmental Epidemiology) e da anni impegnato nel dimostrare come la salute dell’ambiente sia garante di giustizia sociale.
Naturam semper recurret
É ormai da tempo dimostrato che l’ambiente rappresenta la prima dimensione dell’esperienza vitale. É esplorando il mondo – la sua fisicità, la sua presenza e le sue “vicende” – che un neonato o un bambino ai primi passi creano la loro relazione corporea (embodiment) con l’ambiente.
“Un saldo attaccamento all’ambiente naturale è il modo per raggiungere la felicità personale, oltre che per procedere nell’evoluzione dell’estensione empatica fino a includere la natura in tutta la sua varietà” (Jeremy Rifkin). Questo “distrarsi affettuosamente nel luogo natìo” costituisce il nostro prendere coscienza di essere uomini sulla Terra, la prima e intima familiarità fisica e corporea con il mondo naturale che ci circonda.
Questo primordiale sviluppo della nostra innata coscienza biofilica incorpora e trascrive nella nostra memoria l’esperienza che costruiamo nel e del mondo e ci prepara (o dovrebbe prepararci) “a essere adattivi e resilienti su un pianeta che si rinaturalizza”.
Il contatto con la natura non è soltanto un’esperienza estetica o un’attività ricreativa; recenti studi nel campo delle neurobiologie e delle neuroscienze cognitive hanno dimostrato come “le nostre funzioni corporee più intime, fino ai meccanismi di ogni cellula, così come le nostre funzioni cognitive, seguono i ritmi e i flussi del mondo naturale (…). I nostri umori, il nostro comportamento e specialmente il nostro benessere mentale e fisico”, sono “inconsciamente influenzati dal rapporto fisiologico che abbiamo con l’ambiente” (Jeremy Rifkin).
La correlazione natura-salute è ormai corroborata da sorprendenti risultati dimostrati da diversi approfondimenti e ricerche, oltre che da eccellenti casi-studio legati al mondo dell’architettura.
Già nel 1927 il medico naturopata Philip Lovell, direttore della rivista “The care of the body” individuò nel giovane Richard Neutra l’architetto-pioniere per la costruzione della sua “Casa della Salute” (Lovell Health House, Los Angeles, 1927-29), manifesto di uno stile di vita in armonia con la natura.
Lo conferma un rapporto pubblicato sulla rivista “Annual Review of Environment and Resources” (2020) dal titolo “Umani e natura. Come conoscere la natura e farne esperienza influiscono sul benessere”, nel quale autori di ricerche condotte nei dieci ambiti della dimensione del benessere concludevano che “il bilancio delle prove indicava che conoscere la natura e farne esperienza ci rende in generale persone più felici e più sane”.
Un rapporto immersivo nella natura “migliorava la salute fisica, riduceva lo stress, rafforzava l’autodisciplina e ripristinava la salute mentale, favoriva una più profonda spiritualità, accresceva la capacità di concentrazione, potenziava la capacità di apprendimento, ispirava l’immaginazione, approfondiva il senso di identità e stimolava una maggiore connettività e un senso di appartenenza”.
Tutti benefici che possiamo ritrovare in alcuni silenti ma magistrali esempi contemporanei dedicati agli spazi del lavoro (come gli Headquarters Prada e Smeg), dove la meditata e paziente ricerca di Guido Canali ha evoluto il Moderno secondo un’etica attenta alle reali finafronte di altre forme di esercizio fisico al chiuso, che limitavano invece il glucosio di circa il 20 per cento.
Altri indicatori confermavano l’effetto rivitalizzante dell’immersione biofilica: “riduzione del cortisolo salivare (un misuratore dello stress) di una percentuale tra il 13,4 al momento delle visita nel bosco e il 15,8 per cento dopo la passeggiata”, del battito cardiaco (del 6 per cento) e della pressione sanguigna sistolica; la sensazione di rilassalità del progetto come strumento per indagare, affinare e raffinare lo spazio dell’uomo nelle sue interrelazioni con l’ambiente naturale.
Immersione biofilica
Già negli anni 80 del Novecento ricercatori giapponesi provarono a misurare i benefici terapeutici derivanti dai cosiddetti bagni nella foresta (shinrin-yoku), escursioni ricreative nei boschi per ridurre lo stress psicofisico provocato da ritmi di lavoro frenetici.
Una tranquilla passeggiata (compresa fra i 3 e i 6 chilometri) riduceva i livelli di glucosio nel sangue del 40 per cento circa, a mento l’attività nervosa parasimpatica aumenta del 102 per cento (dopo la passeggiata), mentre la sensazione di stress – l’attività ortosimpatica – diminuisce di circa il 20 per cento.
Questa rigenerazione ecoterapeutica è il risultato di una semplice escursione in un bosco. Il termine “biofilia”, letteralmente “passione per la vita”, fu coniato dallo psicologo umanista Erich Fromm (1900-1980) per descrivere il sentimento di empatia dell’uomo verso tutti i fenomeni viventi.
Nel 1993 la definizione venne ripresa e studiata empiricamente da Edward O. Wilson, che descrisse la biofilia come “l’innata tendenza a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le circonda e, in alcune circostanze, ad affiliarsi emotivamente”, una caratteristica intimamente radicata nel nostro Dna, un originario e organico senso di appartenenza alla famiglia della vita: il nostro benessere dipende, quindi, dalla nostra profonda relazione percettiva con ciò che è vivo.
In sintesi, Wilson definisce la biofilia come “la tendenza innata a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali (…). La biofilia riflette la nostra inclinazione intrinseca a empatizzare con le creature nostre compagne e con il mondo naturale”. L’evoluzione della nostra specie muove “da una predisposizione genetica innata ad affiliarsi alla natura”, non alla lotta per dominarla.
“Dominio della natura non significa sconsiderata perversione delle sue forme e dei suoi processi, bensì l’arte di intonare al Suo ordine l’azione dell’uomo” (R.J. Neutra, in “Survival Through Design”, La, 1954).
Riaffiliarsi alla nostra innata coscienza biofilica significa sentire tutte le creature viventi come la nostra famiglia evolutiva, i nostri parenti di vita, “e la natura come nostro luogo e nostra casa in senso stretto” (J. Rifkin).
Sta diffondendosi ovunque un nuovo approccio educativo che mira a riconciliare l’umanità con la propria coscienza biofilica. Dall’Europa alla Nuova Zelanda, dal Canada al Giappone, il fenomeno green si presenta sotto svariate etichette: scuole nella natura o nella foresta, asili nel bosco; gli Stati Uniti ne contano circa 600, la Germania oltre 2.000.
Risvegliate dalla recente pandemia Covid-19, le ‘aule nella natura’ stimolano le giovani generazioni ad una interattività adattiva con e nel mondo, dove la natura – come osserva Joanna Ferraro, fondatrice dell’Early Ecology Preschool di Oakland – “è la nostra insegnante in compresenza”.
La tecnica al servizio dell’etica
Ma poiché trascorriamo il 90% della nostra vita quotidiana in ambienti chiusi, per rigenerarci davvero la natura non deve limitarsi a un piacevole scenario o fondale, ma deve abitarvi e costituirne l’essenza.
Il mondo del progetto e dell’industria dovranno adoprarsi affinché l’atteggiamento virtuoso di casi di eccellenza diventi pratica comune per migliorare il nostro benessere, ponendo la tecnica al servizio dell’etica. Non solo patii, giardini e terrazzi ricchi di essenze, ma anche materiali che trasformino le risorse naturali in struttura rigenerativa della nostra condizione quotidiana.
Non dobbiamo solo portare la natura dentro abitazioni o luoghi di lavoro, ma altresì educare progetto ed industria alla costruzione della nostra esperienza vitale. Se è possibile conservare, sostenere e arricchire il nostro ambiente – rendendolo paricraticamente accessibile, attraverso quali criteri o indicatori possiamo misurarne gli effetti sulla qualità dell’esperienza vitale?
In tale prospettiva, il protocollo Living Building Challenge (Lbc 3.0) – promosso dall’International Living Future Institute (Ilfi) e giunto ormai alla sua terza formulazione “ha come obiettivo la rigenerazione degli edifici e la valutazione degli effetti che tale azione può promuovere sull’ambiente immediatamente oltre i limiti fisici del contesto analizzato”.
In particolare, tra i segmenti innovativi introdotti dal protocollo figura il ‘petalo’ cosiddetto Health+Happiness, che ha come fine “la creazione di un ambiente in grado di ottimizzare il benessere fisico, psicologico dei fruitori dello spazio progettato”, introducendo nel progetto caratteristiche fisiche ed ecologiche del luogo in cui esso si radica al fine di creare, ristabilire o rafforzare l’esultante danza dell’interconnessione biofilica con la natura.
Per l’uomo, quindi, non vi è cosa più facile che vestirsi del progresso e non vi è cosa più difficile che spogliarsi della natura, quella stessa forza rigeneratrice che portava il medico e filosofo tedesco Friedrich Schiller (1759 – 1805) ad enunciare che “Gioia suggon tutti gli esseri / dal seno della natura”.
Si disegna per riconsegnare all’uomo la partecipazione immersiva nello “spettacolo della natura”, la fonte del nostro sentimento vitale. Se “la vista della bella natura desta entusiasmo”, cantava Giacomo Leopardi tra filosofia naturale e immaginazione poetica, riaffiliarsi alla natura, come progettisti e prima ancora come ospiti del pianeta, rigenera “la passione per la vita”, quel nostro innato “senso vivo del desiderio di felicità”.
Bibliografia
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• M. Luisa Palumbo, Paesaggi Sensibili. Architetture a sostegno della vita. Cielo, terra, sponde, :duepunti edizioni, 2012;
• Wittfrida Mitterer, Gabriele MANELLA (a cura di), Costruire sostenibilità: crisi ambientale e bioarchitettura, Franco Angeli, 2013;
• Vittorio Gallese, Arte, corpo e cervello: per un’estetica sperimentale, in Micromega, n. 2, 2014, pp. 49-67.
• Adriano Olivetti, Le fabbriche di bene, Edizioni di Comunità, 2014;
• Richard J. Neutra, Progettare per sopravvivere, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2015;
• Harry F. Mallgrave, L’empatìa degli spazi. Architettura e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, 2015;
• Stefano Mancuso, Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti Editore, 2015;
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• Stefano Mancuso, L’incredibile viaggio delle piante, Edizioni Laterza, 2018;
• David Aegleman, L’intelligenza dinamica. L’evoluzione continua dei circuiti del nostro cervello, Casa Editrice Corbaccio, 2020;
• Paolo Inghilleri, I luoghi che curano, Raffaello Cortina Editore, 2021;
• Michela Matteoli, Il talento del cervello: 10 lezioni facili di neuroscienze, Sonzogno Editori, 2023.
di Moreno Pivetti