La progettazione del paesaggio affonda le sue radici negli interventi di realizzazione dei giardini e dei parchi delle grandi ville nobiliari che, dal 1800 in poi, assumono un ruolo centrale nell’immaginario collettivo. Lo spazio circoscritto di questi grandi elementi urbani avvicina l’uomo a un concetto di natura mediata e controllata, in stretta relazione alla progettazione dell’architettura.
Questa identità del paesaggio, che diventa un’estensione delle grandi architetture di ville e corti, trova supporto nella definizione stessa della parola, entrata nel vocabolario italiano tra quattrocento e cinquecento. Il termine trae origine dal francese paysage che a sua volta deriva dal latino pagus e dall’olandese landschap (Christophe Girot, Immanent Landscape, 2012), che designano una porzione di spazio coltivato e percepibile da un unico punto, tema centrale nella pittura olandese del secolo d’oro.
La progettazione di questi “giardini” diventa quindi, nel contesto di ville e palazzi, parte di un elemento percepibile da un osservatore, ma sempre mediato dall’opera dell’uomo, attraverso cui la natura risponde all’architettura e la vista traguarda terre coltivate o giardini domesticati.
Paesaggio e spazi aperti
Con un rapido salto in avanti, oggi sappiamo che più della metà della popolazione mondiale vive in aree urbane, dove il ruolo del paesaggio, nato da quell’immaginario costruito del giardino, è fondamentale nella definizione degli spazi aperti.
Gli interessi economici, relativamente recenti, nei confronti della rigenerazione urbana in città consolidate e nella creazione di nuovi insediamenti in aree desertiche o sovrappopolate, unito agli avvenimenti sanitari degli ultimi anni, hanno posto ulteriore attenzione verso lo spazio aperto, inteso come “l’ultimo lusso” (Dieter Kienast) della civiltà di oggi.
Su questa strada sono fioriti progetti di integrazione della natura all’interno dell’architettura, con l’inserimento di vegetazione e alberi, il cui obiettivo è di “mitigare”, abbellire e rievocare le grandi ville del passato, oggi diventate verticali.
Un nuovo paradigma
L’attenzione posta nell’integrazione del “verde” ha portato alla creazione di spazi e manufatti in cui la vegetazione è predominante e il cui scopo è quello di mitigare l’impatto delle costruzioni. Tuttavia, se da un lato questa integrazione ha richiamato l’attenzione sull’importanza della vegetazione in aree urbane, dall’altro ha dimenticato che non si può avere il “verde” senza il “blu”.
Recentemente stiamo assistendo a un cambio di paradigma nei confronti dell’architettura del paesaggio, sia di scala che di funzione, per rendere le città non solo a misura d’uomo, ma anche in grado di far fronte alle sfide del futuro. Il 2023 ha visto il conferimento dell’Oberlander Prize – il corrispondente per l’architettura del paesaggio al premio Pritzker per l’architettura – a Kongjian Yu, fondatore dello studio di architettura del paesaggio Turenscape, da anni occupato nella progettazione delle “città spugna”.
Il concetto di “sponge city” nasce ad inizio secolo quasi contemporaneamente in vari luoghi del mondo, ma trova una radice in Cina, dove la sovrappopolazione e il necessario aumento delle aree edificate ha condotto a una rapida impermeabilizzazione del terreno a discapito dei principi dell’invarianza idraulica, causando inondazioni e lo spreco di una risorsa essenziale: l’acqua.
La risposta dell’architettura del paesaggio si è tradotta nella creazione di un dispositivo urbano che, proprio come una spugna e attraverso l’inserimento di aree verdi permeabili che mimano le logiche naturali, mira a gestire gli eventi meteorici, rispettando i luoghi, incrementando la biodiversità urbana e sfruttando meglio le risorse, così da avere un impatto minore sul ciclo naturale.
L’architettura del paesaggio oggi deve tendere a questo, perché la natura come “ornamento” non è più in grado di gestire le sfide del futuro, e assumere quindi un ruolo centrale non solo nella realizzazione di città a misura d’uomo, ma anche una responsabilità ambientale nei confronti degli impatti delle città sul territorio e sul clima.
Tali soluzioni stanno in parte venendo integrate anche in climi aridi e desertici per combattere fenomeni quali i “flash floods” (come quello avvenuto il 16 aprile a Dubai) e in ambito europeo ed italiano dove, nonostante l’approdo tardivo, stanno nascendo progetti sempre più delineati attraverso l’uso di Nature-Based Solutions (NBS) e sistemi di drenaggio urbano sostenibile (SuDS).
Esempi di questo fenomeno si possono trovare nelle trasformazioni territoriali del Middle East, come il parco Al-Urubah, e nelle metropoli europee come Milano, in cui sono realizzati progetti virtuosi di rigenerazione urbana, come quello del Parco 8 Marzo a Porta Vittoria, dove l’integrazione di NBS supporta non solo il sito, ma tutto il tessuto urbano di prossimità.
Le figure coinvolte
Il “nuovo” approccio alla progettazione di paesaggio replica le logiche naturali, permettendo di gestire gli eventi meteorici, i cambiamenti climatici e le necessità delle aree verdi (manutenzioni continue e bisogno di irrigazione) attraverso un uso ridotto di infrastrutture e sottoservizi.
Quest’ultimo però richiede un elevato livello di tecnica e di esperienza progettuale (i vantaggi, non indifferenti, sono di ridurre gli impatti economici in fase di costruzione e ambientali in fase di esercizio e dismissione dei progetti) coinvolgendo diverse discipline che lavorano in sinergia.
Tra queste figurano l’ingegneria idraulica, che studia la gestione sostenibile delle acque e garantisce l’invarianza idraulica del sito di progetto, l’agronomia che supporta le scelte progettuali attraverso l’inserimento di specie vegetali adatte al contesto e al cambiamento climatico, l’ingegneria ambientale, la biodiversità che consente di indirizzare la formazione di corridoi ecologici e la geologia, attraverso l’analisi del suolo.
All’architetto del paesaggio è affidato il compito di immaginare i luoghi e renderli tangibili. Pertanto, è necessario che, come il paesaggio funge da elemento di collegamento tra gli spazi e le architetture, il paesaggista crei “ponti” tra le discipline, in modo tale da renderle rispondenti al progetto.
L’architetto del paesaggio riveste quindi un ruolo centrale, immaginifico ma anche estremamente concreto e tecnico, il cui scopo è quello di guidare la transizione verso il nuovo paradigma della progettazione degli spazi aperti con una responsabilità nei confronti delle sfide del futuro.
di Lorenzo Bucciarelli