Nel corso di più di cinquant’anni di carriera, Emilio Ambasz ha indirizzato la sua ricerca verso la creazione di paesaggi verdeggianti punteggiati da architetture discrete, capaci non solo di esprimere il desiderio per una radicale rifondazione dell’ambiente costruito, ma anche di relazionarsi a programmi specifici. Questa positiva tensione tra visionarietà e pragmatismo è la cifra che accompagna tutta la sua opera.
L’architetto e designer argentino rifiuta il consumo del tempo che caratterizza il contemporaneo e cerca invece di ritrovare quei pochi gesti essenziali che caratterizzano le grandi architetture di ogni periodo. Nello stesso tempo, non proietta la sua utopia in un improbabile futuro, ma cerca di calarla nei riti del quotidiano e nei meccanismi del mercato per renderla realizzabile qui e ora: da qui l’ampiezza dei suoi interessi che va dalla scala minima dell’oggetto di design ai grandi schemi territoriali.
Il paesaggio e il giardino, intesi nel senso anglosassone di landscape, sono il luogo dove la compresenza tra realtà diverse è possibile, dove una «ricombinazione pittoresca» di elementi variabili è sempre riportata a una visione unitaria. Sin dai suoi primi progetti, Ambasz ha ambientato le sue architetture in un paesaggio verde dai grandi orizzonti, una sorta di paradiso terrestre che pone l’elemento naturale in primo piano, facendo recedere le architetture a ruolo di incidenti che definiscono minime modulazioni del territorio.
All’interno di questo contesto archetipico, gli edifici, parzialmente inseriti nel terreno o contenenti la vegetazione, formano unità discrete di volumi primari che celebrano una sorta di ricomposizione tra uomo e ambiente evidenziando rituali architettonici quali la sequenza di un ingresso, la penetrazione della luce, la centralità di un patio colonnato. Tuttavia, nei progetti di Ambasz non ci sono solo questi capisaldi, ma anche tutta una serie di spazi variabili, capaci di rispondere a programmi che si evolvono nel tempo. Non sono espressi architettonicamente, ma mascherati dalla vegetazione o coperti dal terreno erboso, il che permette loro di mutare o crescere senza compromettere il contesto ambientale di riferimento.
Il suo è un tentativo di democratizzazione della natura che ha profonde origini nella cultura degli Stati Uniti, la sua patria d’adozione. Rifiuta tuttavia l’idea della città giardino e la banalità delle casette unifamiliari la cui architettura non è, in fondo, relazionata alla forma del paesaggio. Recupera, invece, procedure della cultura del pittoresco, dove gli edifici non hanno relazioni gerarchiche con l’ambiente e mantengono invece una natura informale e continuamente variata, proprio come le follies che si incontravano lungo le promenade dei parchi settecenteschi di William Kent, Capability Brown o Humphrey Repton.
Non è solo la cultura anglosassone che informa il paesaggio di Ambasz, ma anche archetipi latini e più specificatamente sudamericani. Il territorio argentino, segnato dall’infinita orizzontalità della Pampa, ricompare in quasi tutti i progetti dell’architetto e informa quel senso di estensione che li caratterizza. La visione aerea mostra un’architettura territoriale che si mescola alla natura. Quello del surrealismo è, infatti, un altro degli aspetti che Ambasz mette in gioco, dislocando gli elementi primari e creando paesaggi magrittiani fatti di cielo, acqua e verde posti su livelli diversi.
Con le architetture nel terreno e il tetto verde, Ambasz sviluppa poi le premesse insite nell’esperienza del minimalismo e della land art statunitense. Più e prima di altri, egli ha saputo tradurre in strutture architettoniche i segni primari nel paesaggio di artisti come Michael Heizer, Walter De Maria e Robert Smithson adottando l’idea di marcare il terreno degli earthworks, i quali generano strutture segnate da un solo taglio orizzontale, da un contrafforte verde, una minima emergenza.
Molte sue architetture che diventano natura facendosi contenere dal terreno si alternano a strutture trasparenti che racchiudono la vegetazione. Qui è il vetro a fare da protagonista, creando serre artificiali, che ci ricordano che le greenhouses ottocentesche non solo erano straordinari esempi di leggerezza strutturale ma anche surreali rilocalizzazioni del paesaggio e antenati dei theme park. Non mancano qui riferimenti alla Glaserne Architektur dell’esperienza espressionista centroeuropea con le sue montagne di cristallo.
Il Lucille Halsell Conservatory di San Antonio, in Texas, di cui ricorre il quarantesimo anniversario, è la summa di tutti questi temi. La dicotomia basamento di terreno e più corpi verticali, la compresenza di elementi naturali che coprono l’architettura e vegetazione contenuta. Il paesaggio sopra e dentro in cui prima si penetra nel terreno (il paesaggio vero) attraverso un patio porticato scavato in esso per emergere poi in una serie di serre (il paesaggio ricreato), l’ultima delle quali, quella per le palme, funge da accesso a un tetto verde che diviene piano di riferimento per le numerose strutture verticali e permette di spaziare verso l’orizzonte.
Con la doppia natura scavo-elevazione, discesa-risalita, Ambasz riesce a inserire una serra rigogliosa nel clima semiderserto di San Antonio e a innestare un brano di Arcadia in un contesto suburbano facendolo diventare altro. È molto più del banale greenwashing che caratterizza molte architetture contemporanee. A confronto, i giardini botanici di San Antonio si affermano come un caposaldo della Green Architecture a un livello ben più profondo e articolato, un esempio inarrivato anche dopo quattro decenni dalla loro realizzazione.
di Pietro Valle, Politecnico di Milano (da YouBuild 26)