Chi si occupa di progettazione ha sempre lavorato con i plastici. Piccoli modelli in scala ridotta hanno aiutato l’architetto e il designer a controllare dimensioni e proporzioni di un edificio prima di vederlo realizzato. Sia che fossero modelli da presentare alla committenza, come si vede in molte tele rinascimentali, in cui l’architetto mostra al principe la propria intenzione da realizzare, sia realizzati per capire meglio se l’ipotesi era gradevole e proponibile, oppure se doveva ulteriormente essere raffinata.
Il vantaggio dei modelli, rispetto ai disegni, stava nel fatto che non chiedevano all’investitore di possedere un sapere specialistico, ma potevano essere compresi da chiunque. Un disegno di pianta o di una sezione, come sappiamo, sono interpretabili solo da colui che sa decifrarne le regole grafiche disciplinari. Un modello in scala, invece, equivale al gioco infantile di immaginare un mondo minuscolo da controllare con le mani: come avviene per Lemuel Gulliver, nel celebre romanzo di Jonathan Swift, una volta arrivato a Mildendo, la capitale di Lilliput, che si trova davanti piccoli uomini alti una decina di centimetri che vivono in edifici della loro misura.
La storia dei modelli ci offre straordinari plastici realizzati in essenze di legno pregevole, come quello costruito da Antonio Labacco per il progetto per la Basilica di San Pietro pensato da Antonio da Sangallo il Giovane, ancora oggi visibile presso le Fabbriche della stessa a Roma, a distanza di più di cinque secoli. Ma altri plastici sono ricordati da tutti, come emblematici di idee innovative, si pensi a quelli prodotti da Le Corbusier per il Padiglione Philips, in filo di ferro per spiegare la modalità costruttiva dell’edificio, o la struttura a reticolo che spiega la logica compositiva dell’Unité d’habitation.
Né bisogna tralasciare che alcuni architetti ancora oggi usano i plastici per la definizione del progetto, indispensabili per completare il processo di studio sulla forma. Basti ricordare un architetto come Frank O. Gehry, che lavora con fogli di cartoncino che piega e taglia in modo da definire l’involucro esterno dell’edificio. Solo un digitizer 3D sarà in grado di trasformare quella forma leggera e poco definita in un modello digitale in modo da poter procedere con la realizzazione in cantiere della stravagante ipotesi morfologica.
Da alcuni anni la tecnologia ha permesso di utilizzare strumenti tecnologici in sostituzione delle mani dell’utente per la realizzazione di modelli. Non più cartoncino, forbici, colla e taglierina, quindi, ma fusione di filamento in acido polilattico (Pla) o in acrilonitrile butadiene stirene (Abs), o di altri materiali simili alla plastica, ma alcuni anche biodegradabili, che consentono di ottenere qualità che sfiderebbero il più esperto modellista. Con procedure ricorsive, perfettamente delineate, è possibile ottenere modelli in scala con una qualità inferiore al decimo di millimetro, che mostrano tutti i dettagli di un progetto architettonico, fino a consentire di comprendere l’essenza strutturale o la qualità formale dell’opera.
Per ottenere questo risultato un piccolo canale a punta, riscaldato a una temperatura di circa 200 gradi, permette la fuoriuscita del filo sottile tramite un processo di fusione di questo materiale che si deposita, strato sopra strato, livello sopra livello, con grandissima precisione. Il modello, quindi, cresce lentamente, per addizione, come non è mai avvenuto in passato per la costruzione di simili oggetti. Dal termine tecnico di Rapid Prototyping, ovvero prototipazione rapida, utilizzato per strumenti molto costosi e ingombranti che utilizzavano il raggio laser per la solidificazione del materiale, si è passati al termine più diretto di 3D Printing, ovvero stampa 3D, che in maniera più esplicita fa capire il procedimento.
Come avviene per la stampa di un documento su di un foglio di carta, processo ormai acquisito da chiunque operi al computer, similmente lavora una stampante 3D, con l’unica differenza, sostanziale, che gli strati si possono sovrapporre in modo da garantire una restituzione fisica stereometrica di un file, al posto di un esito esclusivamente bidimensionale come avviene per una pagina.
Così possiamo ricostruire la Basilica Palladiana di Andrea Palladio a Vicenza in forma ridotta secondo l’ipotesi di progetto, rigorosamente simmetrica, dell’autore, come è presente nel suo trattato I quattro libri dell’architettura, ma con un dettaglio che ci consente di evidenziare gli apparati decorativi, i capitelli, la trabeazione, fino alle volute dell’ordine ionico, sebbene siano di dimensioni che metterebbero in difficoltà qualsiasi cesellatore di oreficeria, per le dimensioni micrometriche che la procedura consente di ottenere.
Né bisogna tralasciare il fatto che i modelli non sempre devono essere realizzati solamente in scala ridotta: chi lavora nel campo del design, per esempio, deve poter vedere l’oggetto nella sua forma reale, sia una maniglia, una caffettiera, una lampada, per cogliere i suoi aspetti ergonomici, funzionali, oltre che estetici.
E la sfida che si offre nel campo dell’edilizia è già in via di sperimentazione avanzata: ovvero di poter stampare in 3D non soltanto piccoli oggetti in scala 1:1, ma anche interi moduli abitativi in scala reale, con il medesimo processo ricorsivo che abbiamo descritto sopra, che prevede però, in questo caso, che ai materiali in bioplastica vengano sostituiti quelli più tradizionali, quali malte cementizie, argille, porcellane. Così il modello digitale, verificato in formato ridotto in Pla può, con medesime modalità, prendere forma in grande scala, per essere pronto per funzionalità consuete.
di Alberto Sdegno, Direttore del Master in Building Information Modeling presso l’Università di Udine (da YouBuild n. 24)