Come Bim e digitale stanno scalfendo la separazione tra disegno e costruzione

Tra il disegno e la costruzione di un’opera di architettura c’è sempre stato un confine netto: il disegno, infatti, è il mezzo attraverso il quale si perviene alla realizzazione e per molti secoli tale distinzione è rimasta costante nella pratica della progettazione.

Già Vitruvio nel suo trattato De Architectura, scritto circa 2 mila anni fa, richiamava la considerazione che l’architetto doveva essere peritus graphidos, vale a dire «esperto nel disegno», ma questa considerazione era legata principalmente alla possibilità di dare corpo alle sue ideazioni. Non è un caso che i disegni perdevano di importanza nel momento in cui si compiva l’opera, tanto che essi venivano abbandonati, distrutti, eliminati definitivamente: le tre dimensioni dell’oggetto reale avevano dato una valenza pratica alle due dimensioni, l’ichnographia e l’orthographia vitruviana (la pianta e il prospetto), del disegno progettuale eseguito antecedentemente.

Se tra il 1400 e il 1500 comincia a maturare la coscienza che la figurazione di architettura poteva avere una sua valenza intrinseca, tanto che i disegni cominciano a essere conservati, copiati e distribuiti come testimonianza dell’opera ante quem, l’impiego di procedure di stampa tipografica in serie, avvenute in quel periodo, ha consentito la trasmissione dell’elaborato grafico ad una più vasta platea: ai disegni copiati e diffusi nelle varie botteghe, si sostituisce il libro stampato con le riproduzioni a linee. Alle prime edizioni del De Architectura con figure, per esempio la prima del 1511 di Fra Giocondo, ne fanno seguito innumerevoli altre che via via concedono più spazio alla grafica piuttosto che al testo.

Pur salvaguardando l’importanza del disegno, non soltanto come strumento per pervenire alla costruzione, ma anche come mezzo per trasmettere significative soluzioni da tramandare alle generazioni successive, permane la netta separazione tra l’immaterialità delle grafie e la fisicità di uno spazio che può essere attraversato e vissuto. Le tecnologie digitali stanno lentamente scalfendo questo muro di separazione.

Non soltanto perché le immagini che vengono prodotte con i software di Cad e Bim possono essere di un’accuratezza sorprendente, tanto da registrare nelle tre dimensioni particolari tettonici alla scala reale. Né perché i software di simulazione verosimile, gli algoritmi di Global Illumination o di Texture Mapping, garantiscono ormai un realismo che elude qualsiasi riconoscibilità tra una riproduzione fotografica di un’architettura reale e la sua copia virtuale nella forma di un’immagine di rendering.

Simulazione digitale interattiva della Casa sulla Cascata di Frank L. Wright (elaborazione di Simone Veneziano)

 

L’elaborazione digitale, infatti, da un lato accompagna il manufatto reale nella sua esistenza: si pensi al facility management, che è diventato una delle dimensioni rilevanti del processo inarrestabile di progettazione assistita dalle procedure di Building information modeling, quella sesta dimensione (6D) che prevede che ogni intervento manutentivo, ordinario o straordinario, sia annotato nell’omologo file 3D digitale, così da registrare l’evoluzione storica dei lavori eseguiti. Dall’altro, produce spazi virtuali che, con particolari visori stereoscopici di altissima definizione danno, a colui che li indossa, la sensazione di muoversi nello spazio reale, seppure privo di materialità.

Nel primo caso il muro di separazione è crollato del tutto, anzi, si potrebbe dire che si è raggiunta una inversione di ruoli: per certi versi, infatti, l’opera reale diventa il mezzo attraverso il quale viene soddisfatto il fine, che può essere l’attento e puntuale controllo della stessa, ottenuto per via digitale, in una logica di circolarità che è tratto distintivo del Bim. Nel secondo caso, invece, la separazione si è liquefatta, trasformandosi in qualcosa d’altro da ciò che era alla base delle nostre considerazioni iniziali: il disegno e la costruzione fisica sono, infatti, irriconoscibili.

In un sistema di virtual reality è evidente che non potremmo abitare: non è possibile, cioè, espletare le principali funzioni quotidiane, per esempio quelle legate all’igiene personale, all’alimentazione, o svolgere una tradizionale attività lavorativa. La sensazione, però, per chi entra in tali ambienti immersivi, è quella di trovarsi in uno spazio reale, in cui è possibile camminare, toccare e afferrare gli oggetti lì presenti, sebbene grazie a guanti tattili con speciali sensori (datagloves) che vengono indossati dall’utente e avere, quindi, percezioni dello spazio virtuale che possono essere simili a quelle che prova un visitatore reale.

I significativi cambiamenti nell’uso di una modalità di rappresentazione, sia essa informativa, come nel caso del Bim, o del tutto referenziale alla propria disciplina, come nel caso della realtà virtuale, pongono di continuo interrogativi a tutti coloro che operano nel campo dell’architettura, progettisti, committenti o costruttori: senza eludere al vero mutamento in atto tra i due momenti sostanziali del processo progettuale, vale a dire quel processo di demolizione della barriera, apparentemente invalicabile, tra disegno e costruzione, di cui abbiamo parlato in apertura.

di Alberto Sdegno, Direttore del Master in Building Information Modeling presso l’Università di Udine (da YouBuild n. 21)

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