L’architetto Paolo Asti, uno dei professionisti più noti che opera a Milano nel real estate, spiega a YouBuild perché non sono necessari progetti bizzarri per innovare. Perché investire nel mattone è una buona idea. E perché non ci si può limitare a costruire in classe A.
«Milano, la piccola Londra come spesso si sente dire, è una di quelle città nelle quali vale la pena investire, con la forza economica della grande committenza illuminata che è riuscita a evitare la crisi puntando sulla qualità e la location». Ed è proprio in questa motivazione che forse, secondo Asti, è da ricercare la causa vera della crisi: una mancanza di qualità che ha visto spaccare in due il mercato tra gli operatori che hanno deciso di investire e vendere il prodotto di qualità, e ne sono usciti più rafforzati, e quelli che, invece, sono stati affossati dal momento storico.
L’architetto al servizio del real estate
In un convegno a Milano, in cui il real estate si confrontava con il mondo della progettazione, il dibattito si è concentrato sulla figura professionale dell’architetto, visto da Asti come «l’uomo dalla matita in mano, potenzialmente pericoloso». Spiega l’architetto Paolo Asti: «L’architetto al servizio del real estate deve apportare un contributo diverso, saper declinare le valenze architettoniche all’aspetto commerciale dell’operazione, senza per questo sminuire l’architettura. Per forza di cose l’architetto deve fare della mediazione la sua attività principale. La matita è un aspetto di questa mediazione, perché sempre da un foglio di carta, nel nostro mestiere, bisogna per fortuna partire. L’importante è che quello che viene tracciato sul foglio di carta dia delle risposte certe. Se l’architetto mettesse la propria matita al servizio delle istanze del committente e anche della città perderebbe quella nomea che negli anni si è fatta di essere un personaggio pericoloso per l’operatore immobiliare. Ancora oggi ci sono imprenditori che lamentano nella figura dell’architetto la mancanza di senso pratico e la noncuranza nei confronti di un business plan, spesso anche per una forma mentis che tende a declassificare motivazioni commerciali ed economiche. Ma le cose stanno cambiando. Negli ultimi dieci anni chi ha saputo coniugare le istanze della committenza con il senso pratico dell’architettura ha lavorato tanto. Altri professionisti, invece, sono stati allontanati dal mercato del fare, in cui non ci si può permettere di avere un atteggiamento da artista. Così non è, invece, quando ci si confronta con i bandi di concorso internazionali dove l’architettura gentile non interessa a nessuno, ma è vincente l’architettura del famolo strano».
Edilizia: Milano è un’isola felice
«Milano è una città il cui attivismo immobiliare è talmente alto per cui vale la pena manutenere gli immobili e investire nelle ristrutturazioni. Anche nel resto d’Italia il patrimonio immobiliare si degrada, ma non c’è quella disponibilità economica che caratterizza il capoluogo lombardo. Da questo punto di vista Milano è un’isola felice. Anche negli anni della crisi, e per una città come
Milano se ne può parlare come un qualcosa di passato, il mio studio non ha mai avuto arresti. Anzi, è sempre stato in crescita: qualcuno che comprava casa o affittava uffici c’era anche in periodo di crisi. Ho avuto la fortuna di dialogare con una committenza che ha capito che investire in quegli anni poteva fare la differenza. Puntando soprattutto sulla qualità. L’utente finale, quello che dà ragione a tutti noi di continuare a produrre, attualmente è avvantaggiato dai tassi dei mutui molto bassi quindi si ricomincia ad avere fiducia». Secondo il professionista, il vero problema è una situazione di incertezza politica, anche se Milano ha dimostrato di essere in grado di passare indenne dai cambi di Giunta. Espressione della grande maturità della città di Milano è stata di passare indenne attraverso una situazione politica vivace. «La città non si è fermata ed è andata avanti, confrontandosi con diversi punti di vista. Il mercato recepisce questa stabilità che è fondamentale per i progetti edilizi, molto spesso a lungo termine», nota Paolo Asti.
Quattro progetti di recupero, tra storia e innovazione, firmati dallo studio Paolo Asti a Milano
Recuperare è più difficile che demolire
Quando si parla di interventi di recupero distribuiti sul territorio in maniera capillare, molto spesso sono interventi che costano di più del nuovo. «È una scelta dell’operatore, e anche della città, quella di non demolire e ricostruire piuttosto che di non cambiare sagoma», aggiunge Asti. «Questo, ovviamente, ha un senso quando si tratta di edifici con una loro identità. Per dare qualità a un immobile che si decide di manutenere bisogna avere un know how specifico, approcciandosi in maniera gentile, sia nella progettazione che nella gestione del cantiere, ed è sempre più difficile che demolire».
La qualità del progetto architettonico
«Nelle operazioni immobiliari, in particolare quelle di real estate, l’obiettivo di qualità da raggiungere è a 360 gradi. Prima di tutto, bisogna essere vincenti dal punto di vista del risultato estetico finale, perché è lo strumento che ti permette di vendere il tuo bene. È necessario, in parallelo, mettere a disposizione un oggetto che rientri in determinati parametri di certificazione dell’edificio che lo rendano appetibile sul mercato globale. Non ci si può accontentare di una classe A, che ha un valore aggiunto solo locale, ma bisogna mirare a una certificazione Leed, Gold o Platinum, che è il protocollo riconosciuto a livello internazionale. Un altro aspetto molto importante è essere in grado di fare una progettazione che tuteli se stessi e il proprio cliente rispetto al post vendita. Quindi, immettere sul mercato degli immobili che non abbiano più bisogno di interventi massicci, ma che si adeguino facilmente alle esigenze dei locatari e alla gestione dei building manager», spiega l’architetto.
Verso la progettazione di Pinterest
«Nella progettazione c’è sempre stato il tentativo di avere un rapporto con l’architettura del luogo, non solo per gli esterni ma anche per gli interni. E anche quando questa ricerca veniva a mancare, si manteneva comunque sempre un filo conduttore, non c’era quindi spazio per tutto. Ora il cosiddetto fusion style, parlo per l’interior, ha fatto sì che ci si possa permettere qualsiasi accostamento: materiali, colori, forme, stili che non centrano nulla l’uno con l’altro e molto spesso questa formula risulta vincente. Non c’è più quella ricerca architettonica in base alla quale si battezza un filone e lo si coniuga in tutte le scelte.
Stiamo andando verso la progettazione di Pinterest, dove si possono trovare tutti gli esempi possibili di progetto. Di fatto, il progettista diventa un trova immagini che vengono assemblate, e chi ha più raffinatezza e sensibilità riesce a farlo meglio. L’architetto invece dovrebbe avere quegli obblighi di formazione. Non c’è più quell’attenzione al genius loci che ti dà quell’ispirazione forte in continua connessione con la tua provenienza. La libertà espressiva ha preso il sopravvento e bisogna essere tutti consapevoli che l’architettura globale ha vinto. Eccetto che per quegli interventi puntuali nel tessuto compatto della città esistente. In questi casi rivendico l’importanza dell’architettura gentile».
(Laura Verdi)